Soldate Jeannette: Cineblog intervista il vincitore del Festival di Rotterdam 2013
Abbiamo avuto modo di avvicinare Daniel Hoesl, regista austriaco di uno dei tre film vincitori del Festival di Rotterdam 2013. Quella che ne è venuta fuori un’intervista sui retroscena del film ma soprattutto del personaggio che lo ha diretto
Ci abbiamo lavorato un po’, ma alla fine ci siamo riusciti. Che Soldate Jeannette fosse uno dei film che più ci ha colpito a Rotterdam è cosa nota a chi ci ha seguito nel corso del Festival. Ecco perché, già prima del premio assegnatogli dalla giuria (condiviso con altre tre pellicole), avevamo avvicinato Daniel Hoesl, ossia il regista.
Senza soffermarci su superflue descrizioni di sorta, abbiamo trovato la nostra chiacchierata con Daniel estremamente interessante: si tratta di un giovane affacciatosi a questo mondo per vie traverse e che da questo riconoscimento ha anzitutto tratto maggiore confidenza riguardo alle sue prossime mosse, quali che siano. Con lui abbiamo discusso del suo film, del cinema italiano e di quello in generale, sfociando inevitabilmente nell’attualità, componente ineludibile alla luce dei contenuti di questa sua fatica. Scambio di battute che ci ha consentito di conoscere qualche retroscena del film, ma che soprattutto ci ha chiarito un po’ le idee sul diretto interessato: cosa lo ha spinto a girare Soldate Jeannette; quali sono le tematiche a lui più care; cosa significhi lavorare a fianco di cineasti come Seidl e via discorrendo.
Un bel modo di porre un sigillo ed archiviare definitivamente un Festival denso e apparentemente in crescita come quello di Rotterdam, discutendo di cinema senza discutere di cinema. Sì perché, al di là di giudizi di sorta, riteniamo che dalle righe che seguono traspaia l’atipicità di Daniel, la sua ostentata ed accattivante ambizione di seguire un certo anticonformismo, tra risposte di primo acchito naif ed altre scherzosamente (ma neanche tanto) più estreme. Si è trattato dunque di una mezz’ora che siamo lieti di aver passato in compagnia del nostro ospite, e che abbiamo il piacere di sottoporre ai nostri lettori. A voi la palla!
Tanto per cominciare, parliamo delle tue sensazioni riguardo a questo tuo riconoscimento al Festival.
Il nostro premio lo abbiamo ricevuto già quando abbiamo finito il film. Noi siamo tigri (riferimento al premio, che è una tigre, ndr.) perché abbiamo portato a termine questo film. La cosa che ci riempie di gioia è che adesso, come European Film Conspiracy, avremo l’opportunità di fare un nuovo film. Lo abbiamo fatto insieme, e ciò che più ci rende fieri è che questo premio ci aiuterà a trovare un’audience. Lo abbiamo fatto perché intendiamo porre il pubblico dinanzi a una critica della società, e desideriamo che la gente rifletta sullo status quo. Quando giri un film difficile hai bisogno di qualcosa che ti supporti e quando vinci un premio la gente è più invogliata a seguirti – a tal proposito invito a vedere anche i film che non hanno vinto nulla.
Come mi pare di aver capito anche dai messaggi che ci siamo scambiati, adori la pittura. Qual è il tuo rapporto con questo settore? Ha in qualche misura inciso sulla tua idea di cinema?
Ho frequentato una scuola d’arte non di cinema, ed ho sempre coltivato un certo interesse verso la performing art, essenzialmente arte progressista, non importa di che tipo. Di solito sono molto interessato ai dipinti olandesi: per esempio, quando vado al Louvre mi dirigo nella sezione olandese. D’altronde come si vede nel film la messa in scena è molto curata, grazie anche al fotografo – si tratta di un artista minimalista e questo tipo di arte è quella che realmente mi ispira. Anche se non vedi un soggetto nei quadri di Rothko, restano comunque qualcosa di molto potente. Si tratta di un aspetto molto importante, visto che quando cominciammo la prima cosa che ci interessò fu questa. Mi piace molto la scuola di Düsseldorf, tuttavia proseguendo i miei studi artistici ho cominciato ad interessarmi di arte multimediale (in cui praticamente puoi fare quello che ti pare). Da lì ho cominciato a coltivare un interesse per il tempo; ho cercato di aggiungere tempo alle immagini. A un certo punto mi sono accostato anche ad Hiroshi Sugimoto, restando impressionato rispetto a come riuscisse a catturare certe immagini al cinema. Poi ho dovuto leggere libri di Deleuze nei miei seminari di estetica, e fu lì che mi focalizzai sul cinema: prima non m’interessava in alcun modo; non andavo a vedere film quando ero piccolo. Questo perché ciò che distribuiscono oggi è merda uniformata, che può sì intrattenere ma che avverto come una perdita di tempo.
Ho notato che non inserisci mai nella stessa immagine più di due, tre persone. Si tratta di una scelta ponderata o magari più casuale?
Beh in realtà c’è una scena in cui sono tutti attorno a un tavolo. Comunque è vero, non mi piacciono le riprese troppo dense. Preferisco vedere dettagli. A tal proposito un altro fotografo che mi incuriosisce è Jörg Sasse: i suoi soggetti sono tende, sedie etc., e c’è molto da scoprire quando le osservi da un’altra prospettiva. O quelle parti del corpo che di solito non vedi, possono essere interessanti.
Torniamo al Soldate Jeannette. Come è stata la produzione sin dai primi passi?
Il fotografo, Gerald Kerkletz, ed io ci incontrammo, e lui mi chiese di conoscere Katharina Posch, la produttrice. Dopo un po’ la convincemmo a fare questo film insieme. In quel periodo dividevo l’appartamento con Eva Hausberger, la production manager, ed era d’accordo anche lei. Una volta che il gruppo era formato passammo al casting. Passai in rassegna un centinaio di donne, ma ciò che davvero mi interessa è la biografia: questa è la reale discriminante, ciò che mi consente di trasformare le loro storie in narrazione. Così cominciammo con la ricerca delle ambientazioni, visto che il personaggio di Christina (Anna nel film, ndr.) prevedeva ad un certo punto la presenza di una fattoria. A quel punto sapevamo che non potevamo girare per più di due/tre ore a location, e abbiamo proceduto in ordine cronologico con le riprese. Ovviamente prima decidevamo la messa in scena col fotografo, ma per il resto non c’era quasi nulla di preparato. È chiaro, grossomodo sapevamo dove volevamo andare a parare, ma a parte i monologhi, è stato tutto improvvisato. Considera che non conoscevamo la fine sino a qualche giorno prima che terminassimo le riprese. Dopo è seguito un lungo processo di montaggio, ma in linea di massima procedevamo così: due settimane di riprese, poi montaggio; due settimane di riprese, poi montaggio.
È una lettura possibile quella secondo cui tu abbia tentato due approcci diversi all’attuale situazione globale? Voglio dire, un lato abbiamo Fanni, che vuole scappare da un mondo che in fondo è il nostro; poi abbiamo Anna, che in realtà nel “nostro” mondo vuole visceralmente ritornarci.
La domanda cruciale è questa: cosa desidero? Il film parla di quali alternative si hanno, e per ogni persona è diverso. Il ricco vuole fuggire dal suo mondo, mentre qualcun altro vuole entrarci perché non lo conosce. Si tratta di un’ovvia contraddizione, ma bisogna confrontarsi con questa realtà. Forse non c’è altra alternativa che questo nostro sistema basato sul denaro, e questa è la cosa più brutta. La ragazza che si trova nella fattoria non dovrebbe desiderare di lasciare quel posto, perché noi tendiamo a sottovalutare il lavoro in ambito agricolo. Eppure si tratta della professione a noi più congeniale. In Austria un uovo costa 24 centesimi: nessun contadino può sopravvivere con queste cifre. Quello che intendiamo evidenziare con il nostro film è che la speculazione coatta ha ridotto e sta riducendo un sacco di persone sul lastrico, mentre gli speculatori ignorano chi oramai non ha nemmeno un tetto sopra la propria testa.
Intendevi Fanni un personaggio così distaccato, al di sopra di tutto e tutti, sin dall’inizio, oppure è semplicemente accaduto? O forse si tratta di un errata interpretazione?
Nessuna interpretazione errata. È vero. Lei sa di poter fare ciò che vuole perché chiunque le crederà: perché lei ha i soldi e noi tendiamo a credere alle persone coi soldi. Le persone vogliono stare con te quando indossi anelli di diamanti, quando hai accesso a un club di golf e via discorrendo. Lei guarda attraverso le persone perché comprende quanto nella nostra società sia scontato non mettere in discussione il teatro della nostra realtà. A queste condizioni è facile tradire, ed è pure divertente farlo quando tradisci persone che non ti piacciono e che dal tuo punto di vista trovi ridicole. Come fa Fanny.
Potresti spiegarmi in quale sorta di potere credi così strenuamente, considerata la tua introduzione al film che troviamo nella cartella stampa?
Il primo problema è che siamo una società e non una comunità. In una comunità ci si prende cura ognuno dell’altro e non permetti che i bambini muoiano affamati per strada, dando anche un riparo ai senzatetto. Il nostro stile di vita ci permette di credere solo al governo, alle banche, ai soldi ma non a chi ci sta vicino: questo è davvero triste. Considerato che nel film ci sono queste due donne che si influenzano a vicenda, è evidente che si debba riconsiderare l’amicizia e vivere in una comunità a prescindere dalle logiche monetarie su cui si basa la nostra società. Dimenticate i soldi e piantate un albero per strada, così non ci saranno tutte queste automobili [ride].
Cosa ne pensi del cinema italiano, compreso quello del passato?
Parlando di cinema italiano sono stato molto influenzato dal cinema di Elio Petri, uno dei miei registi preferiti. Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto è uno dei miei film preferiti: lo adoro! Mi ha molto influenzato soprattutto per il protagonista. Lui è il capo della polizia (sezione omicidi, ndr.) ma uccide una prostituta e dovrà conviverci per tutto il film. La differenza è che lui non è un “soldato per l’umanità”, mentre la nostra protagonista lo è. Poi ci sono Pasolini, Antonioni, Olmi. Oggi conosco a malapena Garrone, ma quando guardo al vostro cinema non riesco a gridare al miracolo per via della vostra politica, che in qualche modo si riflette nel cinema. Passando al cinema contemporaneo in generale mi piace molto Roy Andersson… [lunga pausa]. Ma non vado molto al cinema, preferisco il teatro, specie quello tedesco, spettacoli di danza contemporanea, specie quelli belga e olandesi. Il cinema che mi piace di solito non trova distribuzione.
Però voi volete che i vostri film vengano distribuiti…
Lo saranno. Questo premio rende tutto più semplice: nel nostro mondo, basato sulla competizione, sono i vincitori quelli che accedono alla distribuzione. Eppure il film che ho preferito al Festival (di Rotterdam) è un film greco che non era nemmeno in competizione, ossia Boy Eating the Bird’s Food. Ma un film come questo non potrebbe mai vincere un premio, perché cose di questo tipo sono regolate dal consenso. Non a caso penso che col nostro film abbiano premiato un film progressista ma che potrebbe piacere anche ad un audience americana, dato che siamo stati pure al Sundance. Quando fai un film così radicale come Boy Eating the Bird’s Food è molto difficile ma lo apprezzo a tal punto che vi invito a vedere quello piuttosto che il mio. [ride]
Com’è lavorare con Seidl?
Ulrich Seidl è un cineasta anticonformista, fuorilegge e progressista, con cui sono felice di aver collaborato. È uno che beve in continuazione, ed è un tedio perché con lui si fanno le ore piccole. L’efficienza non è una sua prerogativa ma si tratta di una componente che fa parte del suo processo lavorativo, il che ha un senso se ci pensi bene. Allo stesso tempo non sarei mai stato interessato a fare i film che lui ha fatto, ed in tal senso puoi vedere tu stesso che non ci sono molte influenze (a livello di contenuti, ndr.). Tuttavia ho imparato molto dal suo processo ed ho appreso molto dai suoi direttori artistici.
Prima di salutarci, domanda di rito: prossimo progetto?
È difficile convincere un produttore quando non hai una storia tra le mani. Ma continuerò come ho fatto finora e vedremo se qualcuno vorrà ancora darmi carta bianca per un altro progetto. Ho avuto una chiacchierata con il capo del Film Istitute austriaco e sono ottimista a riguardo. Ma tutto dipenderà dai miei collaboratori: senza di loro mi sento completamente perso, quindi decideremo insieme.
Ringraziamo Daniel per la sua disponibilità, augurandogli il meglio per la sua carriera. A conti fatti, appena cominciata!