Sorrentino è un autore che non si scompone: sembra Ingmar Bergman
Propongo con timidezza un accostamento che potrà sembrare esagerato, e lo è, per l’autore di “The Young Pope”, ma mi domando: dov’è, soprattutto da noi, un autore ancora giovane che non gioca con le farse e le denunce, e ci guarda con sarcasmo?
Ho visto con pazienza le puntate di “The Young Pope” di Paolo Sorrentino, dopo che avevo scoperto a Venezia il film (fusione di due parti iniziali della serie) con piacere, convinto che fosse meglio di tanti film messi in concorso alla Mostra del cinema.
Pazienza, perché il passo del racconto non era dettato dalla logica dei serial, anche i migliori, che vanno secondo ritmi veloci e molto convenzionali; scorrono, ma lasciano poche tracce, si sciolgono come vogliono nella nostra mente come una tisana suggeritrice di sonno e di sogni malati, macabri.
Puntata dopo puntata sono entrato in contatto con le intenzioni del regista, il quale ha capito bene che non c’è salvezza del nostro cinema, dopo la fine del cinema d’autore (dai padri di ieri, Rossellini, ai padri di oggi, Nanni Moretti); dopo lo smarrimento di un rapporto di stimoli tra produttori e autori, autori semplicemente abbandonati al loro destino; il tutto consegnato alla verifica senza convinzione nelle sale, con i finanziatori (tv) che usano il cinema per raccogliere premi e svogliatamente incassi, nella situazione distratta e poco preparata: si fa il cinema come una febbre da smaltire, non come una fabbrica o un artigianato da far funzionare, insieme al pubblico; il nostro, e quello estero, peraltro affrontati senza veri programmi e vere strategie.
“The Young Pope” fa tutti i conti e i confronti in dialettica con Sky, per la produzione e per le strategie; è dalla sintesi è venuto a galla un film di intenzioni artistiche serie, efficaci, come accade sempre sempre men da noi.
Sorrentino è emerso dal tema affrontato in un Vaticano, finto, ricostruito: il Regno della Chiesa, una grande casamatta, un grande bunker, in cui la vita cerca di divincolarsi dalla fede, dai tormenti, dalle esaltazioni di chi lo abita, circondato da un mondo che guarda alla Chiesa stessa come a un regno di morti e di fantasmi, come un’utopia che si alimenta di abitudini e di riti da cui si sprigiona un contagio lungo uno struggente viale del tramonto, in cui sono coinvolti milioni di cattolici e non solo.
La Chiesa di Sorrentino non è quella di Papa Francesco, la sorpassa, senza sfidarla, la porta lontano, al di sopra di tutto, grazie a un ragazzo orfano che cerca un destino dentro se stesso, un “dentro” in cui circolano la disperazione e il sogno, il sogno soprattutto, di un qualcosa che sia degno alto o basso non importa, ma capace di dare amore o un sapore d’amore in un giovane pope americano che parla a tutti i giovani, di cui possa essere finalmente ispiratore.
La solitudine del Pope di Sorrentino è la solitudine dei personaggi di tanti film di Bergman, un laico che viveva e sopravviveva con il rovello di Dio, di Gesù Cristo, del contagio attraverso il contrasto della religiosità cattolica con i suoi “spettacoli” di celebrazioni. Il protestante senza fede Bergman interpellava la cattolicità e le sue invenzioni dell’arte, un cielo pieno di affreschi meravigliosi e solennità potenti ( superfici meravigliose).
Bergman è presente in Sorrentino nel ritmo delle immagini, delle colonne sonore, del montaggio. Un ritmo non convenzionale, calcolato e spontaneo, vistoso e mascherato nel racconto che va anche se è “lento”, ma non è lento, è grave, di spessore, che cattura.
Dunque, un’esperienza unica nel nostro cinema e nelle nostre tv, appiattite nella paura e del non sapere quale prendere, se non quella della banalità che attraverso tutti i generi, anche quelli del crimine e delle violenze. Oggetti e non idee. Cose da rigattiere.Cose che Sorrentino guarda con divertimento, anzi con sarcasmo.