Home Notizie Speciale Asian Film Festival

Speciale Asian Film Festival

Le tematiche sociali sono importanti in un festival che si occupa dell’Est dell’Asia, una Regione del mondo che presenta Paesi in costante ascesa economica ma con innumerevoli contraddizioni.Ieri è stato presentato in concorso il film cinese Mang Shan (Blind Mountain) di Ly Yang. Il regista, cresciuto nell’ambiente teatrale e di formazione internazionale, ha vinto l’Orso

10 Ottobre 2007 10:37

Le tematiche sociali sono importanti in un festival che si occupa dell’Est dell’Asia, una Regione del mondo che presenta Paesi in costante ascesa economica ma con innumerevoli contraddizioni.

Ieri è stato presentato in concorso il film cinese Mang Shan (Blind Mountain) di Ly Yang. Il regista, cresciuto nell’ambiente teatrale e di formazione internazionale, ha vinto l’Orso d’Argento al Festival di Berlino per il suo primo lungometraggio Blind Shaft (del 2003), in cui un gruppo di minatori sottopagati e senza alcuna tutela rimaneva intrappolato all’interno delle miniere (cieche).
In Blind Mountain, presentato al 60° Festival di Cannes, sono le montagne ad essere cieche; chiara metafora dell’oscurantismo perpetrato dalla Cina nei confronti della mancanza dei diritti civili e dell’arretratezza in cui ancora vivono molte zone rurali del paese.

Bai Xuemei, una ragazza appena laureata alla ricerca disperata di un lavoro, è venduta con l’inganno ad un contadino che vive in mezzo alle montagne. Il villaggio in cui la ragazza si trova prigioniera non è stato assolutamente sfiorato dal progresso. Gli uomini comprano le mogli che debbono dare loro dei figli maschi (non ci sono bambine tra gli studenti della piccola scuola del villaggio, e in una drammatica scena si vede il corpicino di una bambina uccisa) ed inutile è ogni tentativo di scappare da quel luogo in cui neanche le autorità del regime hanno potere.
Bai Kuemei tenta ripetutamente di scappare, ma è tutto il villaggio che si mette ogni volta alla sua ricerca per riportarla a casa da suo “marito”.

Blind Mountain è un ritratto della condizione femminile nella Cina rurale, ed è un ritratto della Cina rurale stessa, con la sua cultura radicata ad un modello di società fondato sulla figura maschile: in questo senso l’intero villaggio tiene prigioniere le donne rapite, anche le altre donne della comunità che aiutano i loro uomini a controllarle e a non farle scappare.
Li Yang racconta il dramma di Bai Xuemei con intensità ma anche con delicatezza, non scade in scene di violenza gratuita ed esalta la determinazione della ragazza a scappare, esalta la perseveranza della donna a non farsi sottomettere, nonostante l’impossibilità di una via d’uscita da quella condizione.
Altre donne prima di lei hanno provato a fuggire, nessuna c’è riuscita ed alcune hanno pagato duramente i loro tentativi. Le fughe di Bai Xuemei scandiscono il tempo nel villaggio, che altrimenti rimarrebbe immoto, come immutata è la loro cultura.
Bellissimo film, drammatico e intenso.

Altro bel film (sempre in concorso) dalle tematiche sociali è il filippino Foster Child, di Brillante Mendoza. Il regista realizza un film a basso budget in un Paese con l’economia allo sbando ed in cui l’industria cinematografica è in crisi da decenni.
Foster Child è la storia di Jhon-Jhon e della sua famiglia affidataria. Thelma, Dado e i loro figli Gerald e Yuri vivono il loro ultimo giorno insieme a Jhon-Jhon: il bambino in serata farà il suo ingresso nella sua famiglia adottiva, americana benestante che lo porterà a vivere negli USA.

Girato come se fosse un documentario, Foster Child osserva con discrezione tutti i componenti di questa famiglia ed il modo di reagire di ciascuno alla separazione da Jhon-Jhon, un bambino che per tre anni ha vissuto con loro come membro della famiglia.
Dado è il primo che esce di scena: va a lavoro il mattino presto e dopo averlo coccolato va via infuriato e triste.
Gerald e Yuri fngono di rimanere indifferenti a questa triste separazione, uno di loro arriva a dire alla mamma che vorrebbe che il prossimo bambino affidato sia una bimba.
L’interpretazione di Thelma è meravigliosa, misurata, discreta: infatti, l’attrice che le dà il volto è Cherry Pie Picche, una delle più importanti nelle Filippine e che aveva già lavorato con Mendoza.

Seguendo la giornata di Thelma e Jhon-Jhon si inizia un simbolico viaggio attraverso le diverse scale sociali delle filippine.
La famiglia di Thelma è sicuramente povera, per i canoni occidentali, ma non lo è se si fa il confronto con le altre donne e famiglie che si incontrano nel corso del “viaggio”.
Dalle baraccopoli il percorso porta fino ai Grand Hotel di lusso, presidiati da militari armati.
La regia è perfetta, essenziale, stile documentario, penetra a fondo nei personaggi e nell’ambiente circostante, non dà giudizi e mostra una fetta importante della realtà filippina attraverso la piccola storia di una famiglia.