Speciale Oscar: rifacciamo i verdetti…
Una maratona lunga quasi 80 anni alla ricerca dell’ Oscar perduto. Tra vincitori che non lasciano il segno, vinti che restano nella memoria e autentici capolavori fuori dai giochi.
La storia dell’Oscar da sempre è stata costellata di decisioni discutibili, verdetti ecumenici o indigeribili “scippi”. Diciamolo chiaramente: non c’è edizione del premio cinematografico più ambito di sempre che non abbia scontentato qualcuno tra critici, pubblico e addetti ai lavori. Senza contare poi che la platea dei cinefili si è fatta assai più “scafata” ed attenta rispetto al passato e che, conseguentemente, giudicare verdetti e premi è diventata un’operazione “critica” ancor più alla portata di tutti. Sono lontani insomma i tempi in cui si andava a vedere il film “da Oscar” bevendosi passivamente i riconoscimenti elargiti dall’Academy; oggi il pubblico può giudicare da sè e con armi critiche ancora più affilate di quelle degli stessi addetti ai lavori.
A ciò si aggiunge l’altro implacabile responso, quello del tempo, giudice severo che spesso attribuisce alle pellicole sconfitte sorti migliori di quelle premiate. Perché queste ultime avranno pure il titolo vergato in oro sulle pagine degli annali ma spesso, per quanto riuscite, non avranno mai la capacità di insinuarsi fino in fondo nella memoria cinematografica collettiva, di rappresentare lo spirito dei tempi o testimoniare svolte espressive nella settima arte.
A pochi giorni dalla 86° edizione degli Oscar (il cui verdetto, ne siamo certi, originerà nuovi dibattiti) proviamo dunque a giocare con il passato cinematografico “rifacendo il verdetto” delle passate edizioni – ma nella sola categoria del miglior film- e ricollocando al posto dei vincitori qualche altro candidato che forse avrebbe figurato meglio. Senza dimenticare che spesso, fra gli stessi esclusi dalla cinquina fondamentale, si nascondevano i soli e autentici capolavori dell’annata cinematografica. Ma questo lo scoprirete leggendo.
Iniziando dalle annate d’oro occorre fare una doverosa premessa. Spesso la qualità dei titoli selezionati nella categoria principale (che, non dimentichiamolo, dal 1931 fino al 1943 annoverava fra gli 8 e i 10 film, usanza ripristinata proprio nel 2010) era talmente elevata da rendere perfino arduo operare una scelta oggettiva. Questo almeno agli occhi di uno spettatore moderno. Così, per fare un esempio, non sorprendetevi troppo di trovare in un anno come il 1939 – quello del trionfo di Via col Vento – contendenti come Ninotchka, Mr. Smith va a Washington, Ombre Rosse e Il mago di Oz. Sarà che il cinema dell’epoca stava costruendo simultaneamente il suo immaginario di sempre, ma di certo risultava difficile sbagliare un premio Oscar con candidati simili. Difficile certo, ma mica impossibile.
Perché la prima e forse più eclatante ingiustizia arrivò già nel 1941, quando la vittoria toccò a Com’era verde la mia valle, melodramma sociale e sentimentale che fece fuori candidati come Il sospetto, Piccole volpi, Il mistero del falco e, soprattutto, il folgorante Quarto potere. Commentare è perfino superfluo. Welles replicò il bis della sconfitta giusto l’anno successivo quando spettò al patriottico La signora Miniver battere il suo mirabile, per quanto lacerato dai tagli, L’orgoglio degli Amberson. E che ne dite, nel 1944, del rassicurante e “parrocchiale” La mia via che fa fuori il noir per eccellenza della storia del cinema, La fiamma del peccato di Billy Wilder? Se Casablanca era riuscito a trionfare (con giustizia) appena l’anno prima, lo dobbiamo solo a quel nazionalismo che, in tempi di guerra, imperava evidentemente fra i giurati. Lo stesso sentimento che aveva (e avrebbe) generato altri, discutibili verdetti. Guerra, sentimento e patriottismo avranno infatti la meglio anche nel 1946 (I migliori anni della nostra vita) battendo la favola soavemente “oscura” di Frank Capra, La vita è meravigliosa, e la sperimentazione teatrale dell’ Enrico V di Laurence Olivier. Certo quest’ultimo si rifarà neanche due anni dopo con il suo Amleto, ma a spese di quella meraviglia visiva di Scarpette Rosse firmato Powell & Pressburger.
Ed eccoci al 1950 e alla citazione di cui alla vignetta. Quell’anno si premiava un film sublime per regia e gara di recitazione femminile come Eva contro Eva. Nessuna obiezione naturalmente perché sempre di capolavoro si tratta. Però il suo concorrente più agguerrito si intitolava Viale del tramonto, riflessione ancora più sanguigna e assoluta sulla settima arte. Non avrei voluto essere tra i giurati di quell’edizione ma, se mai lo fossi stato, non avrei avuto dubbi a incoronare il capolavoro di Wilder come miglior film (che, aggiungerei, non ebbe neppure la consolazione di vedere premiata la sua eccelsa protagonista Gloria Swanson in quanto le fu immeritatamente preferita la Judy Holliday di Nata Ieri).
Nel 1952 sarà Il più grande spettacolo del mondo ad avere la meglio su Mezzogiorno di fuoco; dietro le quinte c’era però Cantando sotto la pioggia, neppure candidato. E se vi sembra incontestabile, due anni dopo, l’affermazione di Fronte del porto sopra Sette spose per sette fratelli (anche se, personalmente, nutro un debole per il musical di Stanley Donen), rimettereste in discussione l’intera edizione del ’54 dopo l’esclusione di film come Brigadoon e soprattutto di un cult come La finestra sul cortile. Nel 1956 invece sarà la leggerezza de Il giro del mondo in 80 giorni a trionfare su un film testamentario come Il gigante, mentre il melodramma sirkiano di Come le foglie al vento resterà nell’ombra delle nomination principali, prossimo ad essere rivalutato soltanto negli anni a venire. L’anno successivo, il 1957, vede trionfare il dramma militare e coinvolgente de Il ponte sul fiume Kwai. Tutto bellissimo se non fosse che a gareggiare insieme al kolossal di Lean c’erano due capolavori come La parola ai giurati (un maestoso Lumet) e Testimone d’accusa (ancora Billy Wlder!). E poco importa se nel 1958 sarà il musical Gigi a cinguettare una vittoria da nove Oscar sopra lo sconfitto La gatta sul tetto che scotta. Ad inficiare la gara di quell’anno bastava già una delle esclusioni più incomprensibili e scandalose della storia: il sublime Vertigo. No comment. Nel ’59 Ben Hur schiantò la debole concorrenza sotto il peso di un record (11 statuette) rimasto ineguagliato per quasi quarant’anni. Al tappeto rimasero il concorrente Anatomia di un omicidio ma soprattutto i non candidati Hitchcock (Intrigo internazionale), il melodramma morboso di Mankiewicz (Improvvisamente l’estate scorsa) e il Billy Wilder più imprescindibile di tutti (A qualcuno piace caldo). Ai parrucconi dell’Academy innamorati del peplum interessa più la magniloquenza della messa in scena che le nuove o diverse tendenze cinematografiche di fine decennio.
Va detto tuttavia che il grande Billy si rifarà della sconfitta proprio l’anno successivo con il delizioso (ma non epocale) L’appartamento; tra gli ignorati eccellenti dell’anno 1960 però figuravano Spartacus e soprattutto Psycho. Mica robetta insomma! Gara potente anche quella del ’61 tra un West Side Story acchiappatutto da una parte e il duo Vincitori e Vinti- Lo spaccone dall’altra. C’era anche una doppia Audrey Hepburn sospesa tra Colazione da Tiffany e Quelle due, ma fu messa prontamente fuori gioco proprio come quei film.
Chi potrebbe contestare poi il trionfo da sette statuette di un film potente come Lawrence d’Arabia nel 1962? Nessuno ovviamente. Ma lasciateci versare qualche calda lacrima di dolore per sconfitti (o non candidati) eccellenti come Il buio oltre la siepe, Che fine ha fatto Baby Jane?e Va’e uccidi. Due anni dopo arrivano 8 sacrosanti Oscar al sontuoso My Fair Lady (che adoro). Ma mentre in gara si scannavano due fra i più famosi musical di sempre (perché il ’64 era anche l’anno di Mary Poppins), a leccarsi le ferite c’era uno sconfitto di lusso (e di culto) come pochi: Il Dottor Stranamore. Alla fine degli anni ’60 l’America mostra di avere parecchio a cuore la questione razziale. Lo dimostrano i due cavalli di razza candidati al maggior premio, entrambi con protagonista il paladino dei diritti civili Sidney Poitier (che però non venne candidato). Il giallo sociale La calda notte dell’ispettore Tibbs batte così il melò familiare di Indovina chi viene a cena? ma sarà Il laureato, candidato e sconfitto, a lasciare il segno nelle future generazioni. Anno dolente invece il 1968 quando a vincere sarà un (discreto e nulla più) trattamento musicale da Dickens, Oliver! Se non vi basta una ragione per rammaricarvi allora ve ne do due: la prima si chiama Rosemary’s Baby, la seconda si intitola 2001: Odissea nello spazio. Entrambi non candidati. Da denuncia.
Grande William Friedkin e memorabile il suo Braccio violento della Legge, vincitore emerito dell’edizione del 1971. Tutta quell’annata però resta memorabile perché inaugura il decennio più fertile e “paranoico” della storia americana, destinato a lasciare il segno con titoli fondamentali come Conoscenza carnale, Domenica, maledetta domenica e L’ultimo spettacolo. Tutti ignorati ovviamente. Dimenticavo: insieme a Friedkin concorreva a miglior film anche un “certo” Arancia meccanica (!). Memorabili quei tempi quando Il padrino- parte II nel 1974 concorreva (vincendo) insieme a Chinatown e ai disillusi Una moglie e Alice non abita più qui. Qualche riserva però va doverosamente mossa nei confronti dell’edizione del 1973, quando lo scanzonato La stangata sbaragliava il dramma di Sussurri e grida, il poliziesco di Serpico (non candidato) e la nostalgia di American Graffiti e Come eravamo. Il più grande torto dell’Academy tuttavia resterà quello di non aver riconosciuto la grandezza di uno psico-horror seminale come L’esorcista, fuori dai giochi come miglior film. Mi arrendo con le spalle al muro dinanzi al verdetto dell’edizione 1975 quando a vincere sarà Qualcuno volò sul nido del cuculo. Perché come si fa a scegliere razionalmente fra Spielberg (Lo squalo), Lumet (Quel pomeriggio di un giorno da cani), Kubrick (Barry Lyndon) e Altman (Nashville)? A questa edizione il merito di aver centrato quantomeno una cinquina memorabile anche se il verdetto non poteva che lasciare sconfitti di lusso sul campo.
Ai giurati del 1976 spetta invece la palma d’oro della miopia. Perché se tra le mani hai candidati come Taxi Driver, Tutti gli uomini del presidente e Quinto potere (assente però i Duellanti di Scott) come si fa poi a dare l’Oscar al pur buon Rocky?! Misteri della fede (cinematografica). Il 1977 è l’anno di Woody Allen incoronato non a torto per Io e Annie. Tuttavia la vecchia Hollywood ignora l’impatto di quella nuova segnata dal brand Lucas & Spielberg. Per questo motivo un Guerre Stellari potrà beccarsi solo premi tecnici mentre la fantascienza messianica di Spielberg (Incontri ravvicinati del terzo tipo) neppure verrà candidata. Iniziano le ostilità tra blockbuster di nobile fattura e il tipico conservatorismo da giurati (di lì a poco subiranno lo stesso trattamento anche Superman e I predatori dell’arca perduta mentre l’horror fantascientifico di Alien non riesce a far breccia come dovrebbe).
Familismo americano vs. avanguardia sembra invece il leit motiv che caratterizza le prime edizioni (1979-1980) a cavallo fra vecchio e nuovo decennio. I vincitori di questi due anni saranno Kramer contro Kramer e Gente Comune. (I vinti invece sono titoli talmente “pesanti” che si fatica perfino ad ammetterli come sconfitti: Apocalypse Now nel 1979 e il duo The Elephant Man- Toro scatenato nel 1980. Vi basta?
Passata (apparentemente) l’indigestione familiare Hollywood ritorna a premiare le vecchie storie edificanti, in perfetta sintonia insomma con l’edonismo reaganiano appena inaugurato. Il trionfatore del 1981 è il britannico Momenti di gloria, tanto bello quanto dimenticabile. E’ questo il titolo che batte Reds e soprattutto quella macchina “assassina” del cinema d’avventura nota come I predatori dell’arca perduta. Anche il 1982 è un anno che mi fa particolarmente piangere. Per carità Gandhi meritava sicuramente in termini di ricostruzione storica ed è pure un film sanamente intriso di pacifismo. Ma lasciarsi sfuggire l’occasione di premiare pellicole come Tootsie, Il verdetto ed E.T.- L’extraterrestre è qualcosa di veramente imperdonabile. Fuori dalla cinquina restano una pietra miliare come Blade Runner (in anticipo sui tempi) e un gioiello di eleganza e comicità come Victor- Victoria, troppo transgender per quei giurati incartapecoriti. L’annata successiva, quella della stagione 1983, torna a trionfare la stucchevolezza di classe condita dalla solita morale familiare. Il vincitore Voglia di tenerezza è uno di quei film che si segue con piacere in un pomeriggio di pioggia, ma il suo contraltare acido, disilluso e non ricattatorio si chiamava Il grande freddo. Io non avrei avuto dubbi sulla scelta da fare e voi? Grande e sofisticatissimo film La mia Africa, vincitore dell’edizione 1986. Ma, devo ammetterlo, non riesco a tornarci con lo stesso trasporto con cui vedo e rivedo gli altri candidati rimasti quell’anno all’asciutto: Witness- il testimone e Il colore viola di Spielberg (scandalosamente povero nonostante la pioggia di nomination). Vincitore morale il grande John Huston con il suo nerissimo L’onore dei prizzi.
L’esotismo domina invece l’edizione 1987 quando la gloria sarà quasi tricolore grazie al trionfo de L’ultimo imperatore. Tuttavia lasciare fuori dai giochi l’unico concorrente in grado di tener testa al kolossal di Bertolucci, e cioè L’impero del sole, è oltremodo intollerabile. Rassegnazione anche per il verdetto 1988 con Rain Man a prendersi un posto nella storia a discapito del cupo e implacabile Le relazioni pericolose o di Mississippi Burning. Ma tant’è perché il vero capolavoro dirompente, innovativo e cinefilo di quell’anno si chiamava Chi ha incastrato Roger Rabbit? e di nominarlo fra i grandi non c’era neppure l’intenzione. Stessa sorte per il controverso L’ultima tentazione di Cristo e soprattutto per il cerebrale e sconvolgente capolavoro di Cronenberg, Inseparabili con Irons straordinario protagonista doppio e, doppiamente, ignorato.
Ma acceleriamo i tempi. Nella stagione 1989- 90, il bello ma “geriatrico” A spasso con Daisy vince sul più accattivante L’attimo fuggente, film ispiratore per le future generazioni, mentre nel 1991, con l’Oscar assegnato a Balla coi Lupi l’America “salda” idealmente il suo debito con i nativi, battendo in volata un autentico capolavoro, Quei bravi ragazzi. Il povero Scorsese dovrà imparare a farci il callo perché i suoi film migliori del decennio, e cioè L’età dell’innocenza (1993) e Casinò (1995), totalizzeranno il triste record di esclusioni. Ma se nel primo caso la battaglia del 1994 sarebbe stata comunque persa (c’era Schindler’s List, un debito con Spielberg da saldare e uno con la Shoah), nella seconda ipotesi Scorsese se la sarebbe dovuta vedere al più con titoli “inerti” come Babe e Apollo 13. Ma si trattava anche qui di una cinquina (premiata nel 1996) inficiata dall’assenza di Seven, Strange Days, I soliti sospetti e, per l’appunto, Casinò. Braveheart insomma vinse facile facile.
Anno 1995. Forrest Gump vs.Pulp Fiction. Il secondo è nella storia, il primo nella memoria del cuore. Difficile scegliere. Anche se va detto che il film di Zemeckis non ha proprio quel cuore candido che vorrebbero attribuirgli i detrattori. Poi è la volta del 1997 quando un mezzo polpettone, Il Paziente inglese, spazza via la concorrenza di Fargo, vincitore morale. Tuttavia la delusione più cocente è l’esclusione dello splendido Ritratto di signora firmato Jane Campion. Nel 1998 Titanic spariglia tutti i giochi possibili con il suo record di candidature battendo anche il noir di L.A. Confidential. Peccato però non aver trovato un posticino anche per il canto funereo de Il dolce domani e la fantascienza socio-politica di Contact. Il 1999, personalmente, è un piccolo annus horribilis. Perché fa davvero male assistere al trionfo di un lieve Shakespeare in love a scapito di Malick (La sottile linea rossa), Spielberg (Salvate il soldato Ryan), di gemme come Demoni e Dei e Soldi sporchi e del solo vincitore ipotizzabile, il capolavoro non candidato The Truman Show. Nel 2000 invece è la volta dell’accattivante e trendy American Beauty, ritratto cinico ma “assolutorio” della famiglia americana. Il suo contraltare diretto sarebbe il plumbeo e “castigatorio” Tempesta di ghiaccio che però neanche verrà menzionato. E se Magnolia non entra in cinquina si piange soprattutto per l’assenza del più dirompente testamento cinematografico degli ultimi anni (Eyes Wide Shut).
Nel 2001, per uno strano cortocircuito con il suo passato più remoto, Hollywood torna al peplum; con il magniloquente Gladiatore Ridley Scott (ignorato da sempre per i veri capolavori) batte di diverse lunghezze Traffic; chissà che sarebbe successo se in cinquina ci fosse stato Aronofsky (Requiem for a Dream)? Quanto al 2002, anno di A beautiful mind, solo Moulin Rouge! avrebbe potuto forse figurare come vincitore migliore. Gli assenti invece, come al solito, avrebbero reso molto meno banale lo spettacolo (e parliamo di A.I.- Intelligenza Artificiale, Memento e soprattutto Mulholland Drive). Nel 2003 i venti di guerra spingevano verso la vittoria dello scacciapensieri (e a onor del vero impeccabile) Chicago contro la memoria dolorosa del Pianista e il raffinato incastro depressivo-temporale di The Hours. Peccato invece che nel 2004 l’Oscar (meritatissimo) all’intera trilogia dell’anello sia giunto nello stesso anno di alcuni fondamentali capolavori d’autore (l’Eastwood di Mystic River e il Big Fish di Burton). Ma questi sono solo rimpianti per le solite, clamorose coincidenze della storia del cinema (anche se l’assenza di Kill Bill in cinquina non era da poco).
Anche il 2005 è l’anno degli assenti più “estremi”. Fuori Closer, Collateral e Se mi lasci ti cancello. Magari avrebbe vinto lo stesso il dolentissimo Million Dollar Baby, però che gara sarebbe potuta diventare…
Chissà quale brivido di soddisfazione deve aver provato Nicholson quando incoronò Crash come miglior film al posto di Brokeback Mountain durante l’edizione 2006. Davvero quell’Oscar doveva toccare al furbastro film di Haggis? E se proprio dovevano restarne fuori i cowboys perché allora non ripiegare su Munich? Dopotutto l’Academy aveva già fatto fuori dalla cinquina i titoli più disturbanti (Match Point e A History of violence). Venne poi l’anno 2007 e con esso l’Oscar “riparatore” a Martin Scorsese per il (non del tutto) suo The Departed. Certo non per il suo film più bello quanto per il più mainstream. Ancora una volta però gli assenti ruggiscono più dei presenti. The Prestige, a mio modesto avviso, era il miglior film dell’anno ma, come da copione, neppure venne considerato.
Altrettanto dura da digerire è stata la vittoria di The Millionaire nel 2008 al posto del lucido, e ben più imponente, Milk. Anche i non candidati però non scherzano: The Wrestler, Revolutionary Road e Changeling sono canti di perdenti meno edificanti del luccicoso riscatto Bollywoodiano ma fanno troppo male all’America. Ed eccoci giunti al fatidico 2010, anno in cui viene ripristinata l’abitudine delle classiche 8-10 candidature, espediente che consente di colmare lacune ed inserire titoli fino a ieri impensabili come District 9 e Avatar o magari non necessari (l’inutile doppia nomination al film Pixar di turno che, al di là dell’ ovvia equiparazione morale ai film in live action, si traduce nei fatti in un posto in meno per un altro titolo). C’era sulla lista un vincitore tondo e perfetto come Bastardi senza gloria ma gli viene preferito (magari per via dei soliti rigurgiti bellico-reazionari) il solido ma meno empatico The Hurt Locker.
Splendida annata poi il 2011 con quelle 10 candidature quasi tutte perfette. Si poteva propendere per le labirintiche ossessioni di Nolan (Inception), il serrato duello verbale di The social Network e, soprattutto, per i fantasmi barocchi e polanskiani de Il cigno nero. I giurati, come da copione, si buttano a capofitto sul più accademico e prevedibile dei titoli, Il discorso del Re. Tutto questo a riprova del fatto che perfino con 10 candidature a disposizione una certa mentalità conservatrice”, come quella dell’Academy Awards, sarà sempre dura a morire. Anzi forse è solo questa mentalità l’unica vera vincitrice della notte più stellata di Hollywood. Anche a settant’anni di distanza.
“Accadde una notte” e, potremmo aggiungere, da allora quasi sempre…