Sputnik, recensione, dalla Russia una parabola aliena di redenzione
Fresco vincitore dello Science+Fiction di Trieste, Sputnik di Egor Abramenko rappresenta una nuova variazione sul tema di Alien
Due astronauti sovietici entrano nell’orbita terrestre e si accingono ad atterrare. Siamo in Kazakistan ma, poco prima dell’impatto, dall’oblò della capsula in cui si trovano si scorge qualcosa di strano; non lo vediamo ma di lì a poco scopriamo che, una volta atterrati, è accaduto qualcosa di strano. Uno dei piloti ha perso la vita, l’altro… beh, diciamo che è sopravvissuto.
Le istanze che cerca di coniugare Sputnik di Egor Abramenko sono molteplici, ed in linea di massima possono essere condensate in una breve e per questo non esaustiva considerazione: si tratta infatti di una fantascienza abbordabile, tutt’altro che avulsa dai toni dell’horror, concepita però non come mero esercizio, quantunque sempre ben accetto, bensì per approntare un discorso di respiro per quanto possibile più ampio. Peraltro fresco vincitore del Premio Asteroide al Science+Fiction di Trieste.
Impossibile non vederci Alien, non tanto in come si relaziona agli eventi quanto ai temi che si agitano all’interno di questa vicenda. In primis il leitmotiv della minaccia da principio esterna ma che tale rimane per poco: come nel film di Ridley Scott, il parassita necessita dell’uomo per crescere, sebbene alla fine qui si approda a conclusioni forse analoghe ma non del tutto coincidenti. Cos’è questa minaccia? E cosa cerca?
Sulla seconda domanda, alla quale di primo acchito è semplice rispondere, sta o cade la resa di un’opera di questo tipo. Se le intenzioni infatti sono troppo chiare, o troppo banali, tocca godere di quanto ci viene mostrato nell’immediato, sperando tutt’al più che in termini di suspense tutto torni o quasi. Se tale ragione resta invece sfumata, se si dimena senza riuscire a farsi del tutto catturare, consentendoci però d’intravederla, allora ci troviamo dinanzi a qualcosa d’interessante.
Qui Abramenko sottopone delle coordinate, e chiaramente parte dal dato umano; parla insomma di una creatura aliena per proporre un discorso che in realtà riguarda noi. Non è casuale, a prescindere da quali fossero le intenzioni, che Sputnik sia ambientato all’interno di una cornice specifica, quella dell’Unione Sovietica: nulla difatti caratterizza maggiormente un qualunque regime autoritario, quali che siano le specie sotto cui si camuffa, che l’ossessione del controllo. Bello anche perché quest’ultima annotazione contribuisce in maniera sensibile all’economia della trama, creando una sorta di conto alla rovescia: coloro che infatti stanno studiando il caso di questo astronauta hanno un tempo limitato, finché degli emissari del Partito non arriveranno da Mosca presso questa landa desolata.
Sono escamotage a cui va riconosciuto un certo ingegno, e che agevolano quel senso di compattezza che effettivamente Sputnik contempla. Non emerge infatti pressoché alcun cedimento rispetto alla progressione, la dottoressa Tatiana, una psichiatra convocata appositamente per studiare il comportamento dell’astronauta, quale azzeccato catalizzatore del processo che si consuma in corso d’opera. Un processo dal quale ricavare alcune significativi appigli, ricollegandoci a quanto scritto sopra in merito all’accostarsi ad un elemento esterno, l’alieno, per focalizzarsi invece non solo e semplicemente sull’uomo, ma addirittura su ciò che cova al proprio interno.
Anche questa traccia sembra incanalare dignitosamente la portata di Sputnik, nella misura in cui attinge, sebbene in maniera tutt’altro che sofisticata, ad argomenti universali: su tutti, il perché la creatura tenda ad essere ostile (di più non si può dire, ma la spiegazione è resa proprio esplicita dall’analisi che fa uno dei personaggi avanti nella trama). In tal senso il film sembra un po’ rifarsi ad un’altra stagione, quella in cui non soltanto tematiche come l’eroismo, non il supereroismo, erano più à la page, ma certe storie sbocciavano e maturavano a fronte di un’idea tutto sommato condivisa che si aveva di certi valori.
Oggi, con il mescolarsi delle carte quanto a taluni codici, fare leva su certa ambiguità diventa quasi inevitabile, per questo è più difficile rapportarcisi: si è infatti veramente ambigui nel raccontare una storia non quando si è incomprensibili, bensì quando, a fronte di due opzioni specifiche e opposte, i personaggi, così come lo spettatore/lettore, vengono messi nella scomoda ancorché corroborante posizione di non sapersi nettamente collocare da una parte piuttosto che un’altra.
Non dico che in tal senso tutto funzioni alla grande, pure per via della chiusa, preparata con discrezione per tutto il film, certo, pur però calcando ulteriormente la mano in rapporto alla protagonista, la quale dispone già di un peso specifico senza bisogno di un ultimo svelamento. Ma sono difetti credo trascurabili, perché lungo l’arco prestabilito si ha comunque modo di snocciolare della discreta Fantascienza, quella che indaga il mistero più insondabile e alieno di tutti, ossia i moti interiori dell’uomo.
Preservando una confezione di tutto rispetto, con una fotografia molto competente, familiare il giusto, componente su cui non ci si sofferma mai abbastanza, specie in un periodo in cui certi risultati tendiamo a ragion veduta a darli per scontati, Sputnik tenta di operare ad un livello appena un po’ più complesso, dimostrando di esserne all’altezza. Una variante sul genere, che non scardina alcuché, forse nemmeno approfondisce, ma che senz’altro pesca bene e rielabora in maniera altrettanto efficace elementi che contraddistinguono un genere, qui rispettato in tutte le sue forme, dall’intrattenimento alle implicazioni attraverso certi scenari esasperati ci costringono a confrontarci. Bastasse questa piccola ma fondamentale lezione: il timore che c’incute l’altro o l’altrove rimanda quasi sempre all’angoscia di conoscere chi siamo e di cosa siamo capaci. Ed il cinema tende a tradurre tutto ciò in modo alquanto terrificante quando si capisce anche solo per sommi capi come utilizzarlo.