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Steve Jobs: recensione in anteprima del film di Danny Boyle

Più un film di Aaron Sorkin che di Danny Boyle, Steve Jobs ha l’aria del grande film mancato: forse lo sceneggiatore ha cominciato a rifare sé stesso. Non per questo è meno lucido e complesso del solito. E non mancano momenti fulminanti, anche grazie a un Michael Fassbender e un cast in forma.

pubblicato 28 Ottobre 2015 aggiornato 30 Luglio 2020 11:32

Se uno ci pensa, Steve Jobs ha addirittura qualcosa di simile con 127 ore. Dopotutto l’ultimo film di Danny Boyle ha un protagonista quasi ‘intrappolato’ in uno stesso ambiente. Certo, qui Jobs si muove libero, parla con persone: ma alla fin fine è chiuso in uno spazio (anzi tre), e la sua vita e tutte le decisioni che ha preso gli attraversano costantemente la memoria.

Poi uno può anche trovare delle similitudini tra l’uso dello spazio in Steve Jobs e quello di molti altri film di Boyle: addirittura Piccoli omicidi tra amici, perché no. Ma davvero: questo è palesemente più un film di Aaron Sorkin. Viene il dubbio ovviamente di come sarebbe stata la versione di David Fincher, che con lo sceneggiatore di The Newsroom aveva già fatto una cosa gloriosa come The Social Network.

Però ammettiamolo: in fin dei conti qui non solo Boyle è assai più controllato del solito, ma addirittura ‘giusto’. Lo è sin dalla decisione di girare i tre segmenti, corrispondenti a tre momenti cruciali della vita di Jobs, in 16mm, 35mm e in digitale. Una scelta ‘teorica’ che si dimostra vincente soprattutto nel primo atto, con una fotografia straordinaria e granulosa (di Alwin H. Küchler) che riesce in modo immediato a dare l’idea di un’epoca.

E poi, dopo In Trance, ci voleva per il regista un film come questo, in cui quasi addomesticarsi alla sceneggiatura e alla portata del personaggio. Giusto qualche ghirigoro, messo però strategicamente in momenti utili, e con una certa forza che viene fuori grazie anche dalle musiche di Daniel Pemberton (a volte abusate: ma la sua traccia ‘elettronica’ è un asso nella manica).

Si comincia nel 1984, il giorno del lancio del Macintosh. Il computer che dovrebbe accogliere il pubblico con un bel ‘Hello’ non si decide a funzionare. Tutti sono in fermento, e Jobs se la deve anche vedere con la sua storia personale. Dietro le quinte infatti, a pochi minuti dal lancio del Macintosh, l’aspettano Chrisann e la piccola Lisa: la donna è venuta a rinfacciargli il fatto di non aver mai riconosciuto la paternità della figlia.

Il Macintosh è un flop, e ci spostiamo al 1988, anno in cui Jobs decide di lanciare la società NeXT: ancora una volta ci sono le stesse persone di quattro anni prima attorno a lui, nel bene e nel male… Facciamo un ulteriore balzo in avanti e ci troviamo nel 1998. Ormai Jobs è tornato alla Apple e sta per lanciare il primo iMac: e quel giorno sarà un po’ la resa dei conti della sua vita personale.

Al suo fianco, in tutti questi anni, c’è sempre Jonna Hoffman, assistente personale che nel ’98 esclama che per 19 anni è stata testimone della sua vita senza però mai vederlo fare un passo in avanti verso la figlia. A darle voce e corpo c’è la miglior Kate Winslet degli ultimi anni. Ma ovviamente ad avere tutti i riflettori puntati contro è Michael Fassbender, che supera ogni aspettativa e ridà dimostrazione della caratura unica di cui è fatto.

Però, appunto, il film non è tanto né di Boyle né di Fassbender, ma del suo sceneggiatore. Lo script di Steve Jobs porta scritto in sé Sorkin in ogni battuta, in ogni dialogo, in ogni confronto. Tant’è che a volte viene il dubbio che questa volta davvero lo sceneggiatore provi un certo compiacimento a rifare sé stesso e scivoli in una scrittura pesante. Dopotutto anche la struttura lo intrappola, visto che la materia è quasi buona per uno spettacolo teatrale in tre atti.

Però c’è da dire che nessuno là fuori è capace come Sorkin di partire da una figura celebre e discussa nel campo della rivoluzione tecnologica e restituirne il lato più umano in modo universale. Steve Jobs, come The Social Network, è ancora una volta un film sulla facciata più triste del business: e come poteva essere altrimenti? Anche per questo non è un biopic tout court: ma chi si aspetta un nuovo Jobs con Ashton Kutcher, magari semplicemente ‘migliore’, sbaglia proprio.

Forse Steve Jobs è in fondo un gran film mancato: inaspettatamente innamorato della sua struttura, a tratti teatrale quando non vorrebbe esserlo, in fondo persino estenuante (si confronti il ritmo con quello di The Social Network). Però gli affetti traditi, l’orgoglio, le invidie, i rapporti irrecuperabili, il rapporto padre-figlia (come in L’arte di vincere), e l’impatto che una figura con una certa personalità e importanza può avere sugli altri sono cose nitide e che nel film hanno una loro palpabile complessità.

In Steve Jobs l’autore è innegabilmente Aaron Sorkin, che magari sì ha iniziato a rifare sé stesso – quelle camminate mentre si parla e parla e parla… -, ma non per questo è meno lucido di prima. Ha problemi, ma Steve Jobs non manca di momenti fulminanti e potenti. Pur vero che Sorkin nel finale riesce a scrivere forse la più commovente ‘peggior battuta’ che si sia mai sentita su grande schermo di recente. E forse in questa frase sono racchiusi pregi e difetti del film.

[rating title=”Voto di Gabriele” value=”7″ layout=”left”]

Steve Jobs (USA 2015, biopic 122′) di Danny Boyle; con Seth Rogen, Michael Fassbender, Jeff Daniels, Michael Stuhlbarg, Kate Winslet. Uscita nelle sale il 21 gennaio 2016.