Sundown, recensione del film di Michel Franco
A sei anni da Chronic, con Sundown Michel Franco torna a trattare il tema della malattia, da una prospettiva diversa ma col medesimo piglio
A bordo piscina, la famiglia Bennett si gode un’assolata Acapulco. Ci si rilassa, si sorseggia un Margarita, insomma, la vacanza perfetta, in un contesto da cartolina. Finché Alice (Charlotte Gainsbourg) non riceve una telefonata: la madre è stata ricoverata in ospedale. La vacanza da sogno muta perciò in un incubo, tutti di corsa a fare le valige e prendere il primo aereo per Londra. Giunti in aeroporto, però, Neil (Tim Roth) si rende conto di non avere con sé il passaporto; nulla da fare, prenderà il prossimo aereo. O per lo meno, così pensano Alice e i suoi due figli. Una volta uscito dall’aeroporto, invece, Neil si fa accompagnare in un hotel a caso, dove si trasferisce e prosegue le proprie vacanze, come se niente fosse. Questo l’incipit di Sundown.
Lo sguardo di Michel Franco, oramai non si possono avere dubbi, è questo. Cinico, a ‘sto giro forse meno manipolatorio che in altre occasioni, ma sempre saldamente ancorato ad un’idea precisa. Inutile ragionare su un non meglio precisato stile; nel caso del regista messicano è probabilmente più opportuno definirla semmai una posa. Un po’ come in Chronic, anche in Sundown ci si attarda sulla malattia. A differenza del suo lavoro del 2015, qui il nostro preferisce caricare tale condizione tutta sul suo protagonista; ciò che lascia perplessi sono i modi, il tentativo cioè di elevare una tesi di suo complessa e rischiosa, ossia quella per cui l’esistenza può riservarci sorprese terribili, rendendoci la vita un inferno, mediante l’indeterminatezza del suo personaggio principale.
Di Neil non sappiamo infatti alcunché, sebbene in corso d’opera qualche piccola informazione emerga, specie in rapporto al grado di parentela con le persone che si vedono all’inizio del film. Per il resto il tutto si risolve nell’osservazione dei suoi movimenti: Neil parla poco e niente, va in spiaggia, prende il sole, tracanna birra, incontra una donna, ci va letto e ci trascorre le giornate. Il totale distacco dell’uomo è di fatto l’espediente che giustifica l’attesa, per non dire l’intera struttura di Sundown, che deve per forza fare leva sull’impenetrabilità di Neil, il non sapere chi sia, cosa cerchi, cosa voglia.
Ma come già evidenziato, il problema sta nello sguardo, da cui deriva in toto l’impostazione del discorso. Franco è furbo, sa quali tasti toccare per non esporsi troppo e certa indeterminatezza altro non è che dissimulazione, non voler andare fin in fondo, cavalcando l’argomento al fine di estetizzarne le implicazioni più superficiali. Si scopre a un certo punto che di mezzo ci sono tanti soldi, visto che i Bennett sono una famiglia d’industriali, tra i più ricchi del Regno Unito (commerciano in carni). Ecco una possibile traccia aggiunta, ma si tratta di depistaggio o cosa?
L’approccio glaciale di Franco perciò rappresenta una scelta estetica, dunque etica, molto netta, anzi soverchiante, che precede l’argomento anziché adeguarvisi; in funzione di tale scelta vengono plasmati gli eventi, senza andare tanto per il sottile rispetto a certe pieghe, certi risvolti. Soluzione accettabile nella misura in cui non s’intenda veicolare chissà cosa, facendo leva sull’aspetto ludico del ricorso a queste forme del racconto; non quando sono tali forme ad imporre il senso e contenuti del racconto medesimo, approdo facile a tal punto da essere in sospetto di scorrettezza.
Penso poi a Berenice (Iazua Larios), la nota tenera di questa greve parabola, così come la scelta di opporre alla cupezza di quanto accade la luce costante di un sole che acceca. Più che elementi opposti, tesi a controbilanciare, anch’essi si sostanziano in misure puramente accessorie. Strati aggiunti, che non possono mescolarsi con la portata di questa storia, in cui tutto è posticcio, la mano (pesante) di Franco percepibile ad ogni curva (e ce ne sono svariate). Il modo quasi compiaciuto con cui Franco rimesta nell’insensatezza di cui tratta anche in questo suo film, infine, altro non è che il sigillo ad un cinema quintessenzialmente autoreferenziale, sistematicamente votato ad imporre anziché esporre, irrimediabilmente chiuso anche solo alla possibilità di dirci qualcosa, preferendo a questo qualcosa il nulla.
Sundown (Messico/Francia/Svezia, 2021) di Michel Franco. Con Tim Roth, Charlotte Gainsbourg, Iazua Larios, Henry Goodman, Albertine Kotting McMillan e Samuel Bottomley. In Concorso.