Home Recensioni Tangerine: recensione in anteprima del film transgender di Sean Baker

Tangerine: recensione in anteprima del film transgender di Sean Baker

Sean Baker torna a Los Angeles dopo Starlet per raccontare la turbolenta vigilia di Natale di due prostitute transgender. E con Tangerine, il suo film-Instagram, si conferma regista indipendente fino al midollo, e mica solo perché il film l’ha girato tutto con un iPhone 5s…

pubblicato 12 Luglio 2015 aggiornato 30 Luglio 2020 14:21

Tangerine non è solo ‘il film girato con un iPhone’. Non può essere solo quello, e se lo si guarda da questo punto di vista e basta gli si fa un servizio piuttosto ingiusto. Tangerine non è nemmeno soltanto un punto di svolta nella storia tecnologica del cinema (indie e non), ma è un film che è assieme sperimentazione, libertà e umanità.

Quello di Sean Baker è da sempre un cinema indipendente nel vero senso del termine. In Tangerine lo è anche più di prima nella forma e nella tecnologia, ma il film non si discosta comunque per dna dai precedenti. Puro cinema degli outcast, di chi sta ai margini della società, anche se in metropoli blasonate e culle del cinema mainstream (e pure di Indiewood, certo).

Che il film con più buzz all’ultimo Sundance (che però mica l’ha messo nel concorso ufficiale ma in NEXT…), quello appunto ‘girato con l’iPhone 5s’, sia un film con protagonisti due persone transessuali la dice comunque assai lunga su dove il cinema sia finalmente arrivato. Il fatto che però il regista sia un maschio bianco eterosessale che fa un film su due transessuali neri mi pare quindi tanto importante quanto il discorso del mezzo.

Mya Taylor e Kitana Kiki Rodriguez, ovviamente alla loro prima prova da attrici, interpretano due transgender di Los Angeles alle prese con una vigilia di Natale piuttosto movimentata. L’idea semplice e giusta di Baker è quella di far interpretare due personaggi transessuali a due attrici transessuali, per la prima volta in un film che ridà dignità totale – cinematografica e non solo – alla lettera T della sigla LGBTQIA.

Alexandra e Sin-Dee sono due prostitute che lavorano per strada, così come altre decine di transessuali e di persone nel quartiere di West Hollywood che sta tra Santa Monica Blvd e Highland Ave. Sin-Dee ha appena scoperto dall’amica che il suo fidanzato (e magnaccia) Chester l’ha più volte tradita con una prostituta, Dinah.

Sin-Dee parte quindi alla ricerca di Dinah, mentre Alexandra prova a far cicolare nel quartiere la voce che quella sera stessa terrà uno spettacolo in un bar. Intanto un taxista di origini armene di nome Razmik continua i suoi giri per Los Angeles portando a spasso una eterogenea fauna di persone, finché non incontra proprio Alexandra. Grazie a lei viene a sapere che Sin-Dee è tornata in città…

Cinema degli outcast, si diceva. E se il cinema indie americano è il cinema degli outcast per eccellenza, allora Tangerine è tra gli esempi più necessari dell’anno per ribadire quali dovrebbero essere gli obiettivi principali di chi con il cinema mainestream non è coinvolto perché non vuole innanzitutto esserne coinvolto. Sean Baker i suoi personaggi li tratta infatti come persone, non come cliché.

Alexandra e Sin-Dee, con il loro repertorio di bitch, inglese velocissimo da strada, tutte mosse e puro istinto, possono metterci anche un po’ a farsi voler bene da una certa fetta di pubblico. Poi però è impossibile non tifare per loro, sperando che tutto vada per il verso giusto e riescano a ottenere quello che vogliono dalla vita.

Se lo si pensa è anche grazie al tocco di Baker, che alla fin fine gira un film che nelle intenzioni non è lontano dal precedente Starlet: il tema in fondo è l’amicizia che vince contro tutto e tutti, e sta in questo l’universalità di un film che altrimenti è assai molto più specifico e radicato in una community precisa e in una città riconoscibile e ben definita.

Starlet e Tangerine rappresentano in fondo per Los Angeles quello che Take Out e Prince of Broadway sono per New York: una lettera tutt’altro che d’amore, anche se non priva di sentimento, a due metropoli in cui difficoltà e solitudine sono all’ordine del giorno. Come a sottolineare che “L.A. è una bugia impacchettata in modo bellissimo”, come dice un personaggio a un certo punto.

Con il suo iPhone, Baker riesce così a catturare quasi in presa diretta l’energia pulsante della città (ma il regista a livello di ritmo ed energia è sempre stato un asso), saturandone i colori e girando quasi il primo film-Instagram di sempre. Baker vince la scommessa anche perché si allontana in modo consapevole dal cinema indie dallo stile ‘documentarista’ e verosimile, scegliendo un approccio quasi ‘sgrammaticato’ (occhio al montaggio), tutt’altro che rarefatto e sognante.

Così la pura energia dei personaggi e dell’ambiente in cui vivono si trasforma man mano in vera empatia dello spettatore rispetto a persone che il cinema mainstream o dimentica o tratta come fa la società stessa, ovvero lasciandoli ai margini o etichettandoli (non solo transgender e prostitute, ma anche papponi dal ‘cuore d’oro’ e padri di famiglia che vanno a trans).

Questi sono i personaggi di Tangerine, trattati con rispetto e verità. Non sono buoni, non sono cattivi, non chiedono allo spettatore di essere compatiti. Non rivendicano neanche la loro giusta fetta di cinema urlando o piangendo. Per questo a oggi Sean Baker è l’emblema del vero regista indipendente americano: ancora capace di dire qualcosa di nuovo in modo nuovo, ancora capace di sperimentare, ancora curioso, ancora libero.

[rating title=”Voto di Gabriele” value=”9″ layout=”left”]

Tangerine (USA 2015, commedia / drammatico 88′) di Sean Baker; con Kitana Kiki Rodriguez, Mya Taylor, Karren Karagulian, Mickey O’Hagan, James Ransone. Sconosciuta la data di distribuzione italiana.