The Duke of Burgundy: recensione in anteprima del film in concorso a Torino 2014
Torino Film Festival 2014: Peter Strickland crea con The Duke of Burgundy un mondo tutto suo, sia stilisticamente (il riferimento è il cinema erotico anni 70) che narrativamente. E ragionando sull’attesa del desiderio e sul desiderio dell’attesa porta a casa un film affascinante, complesso e ricchissimo.
I titoli di testa sono creati sul modello di Berberian Sound Studio: loghi, suoni, colori e idea generale rimandano a un’epoca in cui i film si facevano in un certo modo, perché il mondo era un altro. Sì, non c’è alcun dubbio che The Duke of Burgundy sia un film di Peter Strickland, che ormai ha una sua cifra stilistica ben riconoscibile.
Però The Duke of Burgundy è un bel passo in avanti, ed è quello che Berberian Sound Studio in fondo non era. Perché lì dove Berberian Sound Studio raccontava omaggiando il cinema horror italiano anni 70 la storia di un uomo che lavorava come tecnico del suono proprio per un film horror, The Duke of Burgundy si rifà all’erotico anni 70 senza per forza andare a parare sul meta-cinema a tutti i costi.
L’erotismo del gioco delle parti, e il desiderio dell’attesa. O forse anche l’attesa del desiderio. Mettendo in scena il rapporto sadomaso tra due donne, in un gioco delle parti da serva-padrona, Strickland fa finalmente il balzo che volevamo rispetto all’incompiuto film precedente. Forse perché si è liberato da ogni orpello ombelicale, ma qui dimostra tutto il suo talento stilistico (indiscutibile) e narrativo.
Curata ed elegante, Cynthia porta bene i suoi cinquant’anni: l’atteggiamento algido e imperioso, insieme con la differenza di età, fanno sì che tra lei e la trentenne Evelyn esista un rapporto squilibrato, dove la donna più matura domina la più giovane, che ne diventa la umile servitrice. “Sei in ritardo”, le dice nella prima scena, proseguendo così: “Pulisci lo studio; e non metterci tutto il giorno ‘sto giro”.
I ruoli sono ben definiti sin da subito. Quando Evelyn si sta per sedere sul divano viene subito ripresa da Cynthia: “Ho detto che puoi sederti?”. Quando la ragazza vuole ritirarsi nelle sue stanze, la donna trova invece più utile che le massaggi i piedi. Ovviamente per lavare le mutande la lavatrice non dev’essere usata: la ragazza deve lavarle a mano. Ma che succede se si scorda di lavarne anche solo una? Una bella golden shower (non inquadrata) come punizione.
Ma di sera le due sono due comuni amanti: si ringraziano, si accarezzano a letto, si baciano e fanno sesso. Quella che per Evelyn sembra una dinamica di sudditanza e passività, è in realtà infatti un gioco erotico che desidera portare avanti in ogni modo. Infatti poi la mattina successiva si ricomincia tutto da capo. Cynthia si rimette la parrucca, si veste in modo elegante, indossa i tacchi e aspetta la “cameriera” Evelyn.
Solo che noi spettatori vediamo per la prima volta qualcosa in più: il processo e la creazione del gioco delle parti. Cynthia comincia a bere di nascosto diversi bicchieri d’acqua per poi poter punire l’amante, mentre Evelyn, invece di lucidare costantemente gli stivali della donna come richiesto, si ferma e aspetta di essere scoperta dall’amante per essere punita. Così Strickland ci inizia a rendere davvero partecipi della storia d’amore fra due persone. Con tutto quello che ne consegue, ovviamente.
Perché di mèlo in fondo si tratta, anche se raggelato in uno stile necessariamente controllato. Del legame, delle regole e delle sfumature della relazione tra Cynthia ed Evelyn siamo davvero partecipi in tutto e per tutto. E fa un po’ sorridere vedere per la prima volta l’algida Cynthia russare mentre dorme. Non manca certo un sottilissimo humour nel descrivere tutto questo. Però il regista non giudica o deride mai, anzi, ma invita lo spettatore a ritrovare un po’ di sé stesso in un tipo di storia amorosa e sessuale che forse non gli appartiene.
Se di relazione stiamo parlando, c’è un momento in cui questa ha anche bisogno di essere alimentata con il gioco erotico. Solo che quella fra le due donne vive già gran parte di erotismo per natura: ed Evelyn se ne nutre costantemente. Proprio come una farfalla agli stadi iniziali che non può smettere di mangiare finché non cresce, la ragazza vuole continuare ad esplorare nuove tecniche, nuovi aggeggi e nuovi giochi erotici. Ma che succede se la donna che ha il ruolo dominante si rivela essere in realtà quella meno convinta della relazione?
Visivamente siamo su un altro livello: c’è molto Greenaway, c’è un interior design che toglie il fiato, c’è una (decisamente lunga, forse troppo) onirica parte finale. E poi ci sono sdoppiamenti, candele, una fotografia che ogni volta ci fa adattare al clima delle stanze e all’atmosfera che tira in quella determinata scena. E come in Berberian Sound Studio il tappeto sonoro fa la sua figura, grazie ai suoni delle farfalle e alla musica ipnotica e a tratti maliziosa dei Cat’s Eyes.
A proposito: nel film c’è proprio un gatto che è l’unico vero testimone di un mondo che si basta da solo e resiste, nonostante tutto. Come le migliori relazioni amorose in fondo insegnano. Perché se di base c’è un mondo in cui non c’è bisogno di uomini (non se ne vede uno!), al suo interno c’è poi un altro mondo fatto solo da Cynthia ed Evelyn (a cui la tedesca danese Sidse Babett Knudsen e l’italiana Chiara D’Anna regalano visi, corpi e interpretazioni notevoli). Sta in questo il punto di forza di The Duke of Burgundy: nel creare un mondo tutto suo e svilupparlo fino in fondo.
Voto di Gabriele: 8.5
The Duke of Burgundy (Inghilterra 2014, drammatico / erotico 101′) di Peter Strickland; con Sidse Babett Knudsen, Chiara D’Anna.