The German Doctor – Wakolda: Recensione in Anteprima
Storia e attualità si mescolano nella cornice della Patagonia di mezzo secolo fa. Con Wakolda Lucía Puenza si spinge oltre, maneggiando con notevole perizia più argomenti dalla delicatezza estrema
Negli anni successivi alla Seconda Guerra Mondiale e al processo di Norimberga, alcuni tra i nazisti rimasti in circolazione si trasferirono in Sud America. È storia nota, così come lo è il fatto che l’Argentina fu a quanto pare il Paese più disponibile ad offrire asilo a quelli che oramai erano ufficialmente criminali di guerra. Dei più biechi peraltro, nonché ricercati in quanto nemici dell’umanità. S’ha da comprendere questo passaggio, al di là della retorica (o delle retoriche) su uno dei periodi davvero tra i più bui della storia. E la domanda a cui conduce questa sorta di ricerca è la stessa che si pone Lucía Puenza: come mai tanti argentini furono così ben disposti verso i tedeschi militanti nel partito nazionalsocialista tedesco (o in quel che ne era rimasto)?
Risposta che in fondo non arriva, perché per scandagliare certe ragioni c’è bisogno anzitutto di tempo (per apprendere e poi per riportare), un’abilità non comune nel sapere collegare certi punti, ma anche la capacità di riuscire a resistere a tante “distrazioni”, come possono essere gli inevitabili pregiudizi e le legittime riserve. No, la Puenza non cede alla tentazione, e per quanto si mostri palesemente incuriosita in merito alla domanda espressa poco sopra, preferisce proseguire con la sua storia. Sia mai che incidentalmente ne esca fuori qualcosa.
Wakolda diventa allora un nuovo punto di riferimento su come alludere sempre alla stessa tematica, trattandola con un’originalità ed un’intelligenza nient’affatto usuali. Siamo in Patagonia e gli anni ’50 sono da poco trascorsi. Nel 1960 un suadente straniero si unisce ad una famiglia in viaggio presso una struttura alberghiera di proprietà al fine di dare inizio a questa piccola impresa. Lo straniero è un uomo distinto sulla quarantina, tedesco ma con una buona padronanza dello spagnolo. Madre e figlia avvertono una naturale attrazione verso quest’atipico personaggio, per via dei suoi modi, del suo portamento, nonché del fascino particolare, del tutto estraneo a quei luoghi.
Ciò che spinge quest’insolito compagno di viaggio ad unirsi a questa famigliola è l’interesse verso la piccola Lilith, una graziosa ragazzina che dimostra meno degli anni che ha a causa di un problema che si porta dalla nascita. Non è dato capire quale sia la natura dell’interesse, non in queste prime fasi. Qui si comincia ad intravedere la bravura della regista argentina, che, autrice anche del romanzo da cui è tratta questa pellicola, scansa con encomiabile destrezza qualsivoglia paletto. Nel corso dell’ultimo mezzo secolo cinema e televisione, che per natura adorano le categorie, ci hanno restituito un’immagine del tedesco (con reiterato riferimento ai nazisti), come tipo e come linguaggio, talora parodistica taltaltra macabra. Nulla di tutto ciò qui. La Puenza adotta il criterio dell’indagine e se si parte dalla storia reale relativa a questo suo personaggio non si può fare a meno di immaginarselo grossomodo così come lei lo ha dipinto.
A questo punto sveliamo il segreto di pulcinella, ossia che il tedesco in questione altri non è che Josef Mengele, il celeberrimo medico e ufficiale nazista. Perché “uscire allo scoperto” solo ora? Beh, per via del desiderio di attenerci in qualche misura al tenore del film. Qui Mengele è sì il forte ed irresistibile protagonista, ma al tempo stesso è anche il misterioso sconosciuto che si insinua subdolamente nelle dinamiche dell’ignara famiglia che non solo lo ha accolto ma che, giorno dopo giorno, ne rimane sempre più soggiogata. Chi per un motivo chi per un altro. A tal proposito qualcuno potrebbe lasciarsi fuorviare dal più che contenuto approfondimento dei personaggi, ma di questo si tratterebbe: di un equivoco, per l’appunto. La Puenzo procede per tipi non per singoli, corposi ed ingombranti identikit; quanto a densità basta e avanza quella della messa in scena e della sceneggiatura, al che ridurre all’essenziale trama e profili di ciascun elemento costituisce la misura più saggia e più riuscita. La sua è una ricostruzione per certi versi allegorica, la quale, sebbene saldamente ancorata alla storia, procede per lo più mediante metafore, esplicite o meno.
Tuttavia spicca la prova superlativa di Alex Brendemühl. Te ne rendi conto in particolar modo quando lo incontri de visu e ti tocca arrenderti all’evidenza che non c’entra nulla col personaggio che ha interpretato. Non nei modi, nel portamento, finanche fisicamente si tratta proprio di un’altra persona. Eppure il suo Mengele è lì, più che abile a testimoniare la sua radicale credibilità, a prescindere dalla somiglianza con quello vero. L’autorità che esercita questa figura, mista al timore che suscita, è palpabile dall’inizio alla fine, correndo addirittura il rischio di indurci a simpatizzare per una figura alla quale non viene risparmiato alcun ribrezzo, ma che al tempo stesso ci viene mostrato nella sua diabolica statura. Quasi sempre all’interno di quella sua automobile azzurra, che è più una condizione anziché un semplice mezzo per spostarsi.
Per Lilith potrebbe addirittura trattarsi della sua prima cotta, del suo primo approccio al mondo a lei complementare, ovvero quello maschile. Non pochi sono gli indizi anche a tal proposito, laddove la Puenza ci impartisce anche una fondamentale lezione: che l’ascendente conta più di ciò che si veicola. McLuhan direbbe anche stavolta che «il mezzo è il messaggio». Fatto sta che in Wakolda tale assunto prende corpo un po’ alla volta e con una maestria encomiabile. Basti citare l’episodio del «sonnemenschen», quando Lilith, oramai in balia di Mengele, dedica intere ricreazioni a scuola per scoprire di cosa si tratta: qualcosa che ha a che vedere col concetto di superuomo. Ecco dunque una soluzione stilistica, narrativa e funzionale che lascia il segno per la sua incisività allorché viene ribadito che nell’epoca della comunicazione sfrenata e capillare non le idee, non il loro contenuto, bensì chi le trasmette rappresenta il vero messaggio. Senza intentare percorsi storiografici che non ci competono, l’impressione è che in fondo anche nel caso di quell’ideologia certi punti fermi, costitutivi (l’ossessione per il concetto di razza, ad esempio) non fossero che il preludio a qualcosa di addirittura peggiore.
Ma torniamo al film. In Wakolda tutto si lega e pressoché nulla è lasciato al caso. A posteriori anzi si sprecano i collegamenti, le intuizioni, i risvolti. Quando il film comincia Lilith ha in mano la sua bambola preferita. L’ha chiamata Wakolda e a suo tempo la scelse perché la più imperfetta tra tutte. Difficile trasmettere la potenza di questi istanti che, a qualche ora dalla proiezione, ci hanno assalito con una soverchieria disarmante. Scorrere di nuovo una a caso di quelle inquadrature iniziali, tra primi piani e campi medi, fa venire i brividi. La forza di queste immagini, dapprima ingoiate senza discernimento, in fase di digestione presentano un conto salatissimo. Sono fitte che servono, di cui si ha profondamente bisogno e che appongono il sigillo sulla vertiginosa portata di un’opera che scende giù abbastanza agevolmente, salvo poi esplodere in pancia.
Il bello è che nel tentativo di offrire soluzioni e chiavi di lettura efficaci, qualcosa va inevitabilmente perduto. Credeteci quando affermiamo che Wakolda funziona in maniera esponenzialmente più semplice e fluida di quanto si possa pensare o se ne possa discutere. Tanto che verrebbe da citare sequenze ed episodi ad uno ad uno, trasformando questa recensione in un’analisi tout court, che è cosa comunque diversa. Solo un’ultima scena, anzi inquadratura, prima di congedarci, che è poi quella che trovate in apertura. Una delle più forti nonché emblematiche circa il senso dell’intera operazione, per quanto un pelo telefonata. Il che non è uno svilimento del lavoro della Puenza, anzi, trattasi di un sincero plauso alla sua capacità di sintesi sullo schermo, che è dono e non peccato. Lungi dall’essere mortificante, dunque, riuscire a trovare un’immagine che ci dica tutto di un film, di quello che mostra e di quello che non mostra, che dice e che sottende, beh, parliamo di un’attestazione di qualità e audacia che non sempre un regista riesce a conciliare.
Wakolda si pone dunque come opera sorprendentemente trasversale, durissima ma al tempo stesso accessibile. Forse addirittura necessaria, laddove opere così consistenti, utili e provocatorie rappresentano una rarità da salvaguardare. Imperniato su un realismo mai dimentico del mezzo attraverso cui viene filtrato, il film di Lucía Puenza alza l’asticella circa quanto il cinema ha da espresso in merito ad una questione di estrema attualità, il cui dominio sembrava oramai ineluttabilmente affare della fantascienza. La regista argentina, al contrario, ci dice che il futuro è già avvenuto, e che si chiama passato. Dando un sonoro ceffone a chi non pensa che il «nazismo» in ogni sua forma, lungi dall’essere una semplice ideologia, racchiuda in sé una tentazione atavica, che non ha colore o bandiera, ed alla quale l’uomo è esposto da sempre. Si tratta di capire chi oggi ci sta blandendo e a quale scopo; compito al quale tutti siamo chiamati, nessuno escluso. Che sia giunta l’ora di riporre le nostre bambole nel baule ed uscire fuori a giocare con gli altri?
Voto di Antonio: 9
Wakolda (Argentina, 2013) di Lucía Puenzo. Con Natalia Oreiro, Alex Brendemühl, Diego Peretti, Elena Roger, Guillermo Pfening, Ana Pauls, Alan Daicz, Abril Braunstein, Florencia Bado e Juani Martínez. Nelle nostre sale ad aprile 2014.