The Greatest Showman: Recensione in Anteprima
Un musical circense tra freaks e sogni da conquistare. Natale al cinema con The Greatest Showman.
Prima del ciclone La La Land, vincitore di sei premi Oscar e campione d’incassi con 445,670,343 dollari, era 23 anni che ad Hollywood non si vedeva un musical originale, con canzoni e musiche create apppositamente per il film. Era dai tempi de Gli strilloni (Newsies), produzione Disney diretta da Kenny Ortega con le musiche scritte da Alan Menken, che non avveniva un simile ‘evento’. Grazie al film di Damien Chazelle tutto è finalmente cambiato, con la Mecca del Cinema pronta a riaccogliere uno dei generi che hanno scritto la sua gloriosa storia.
Il musical, per l’appunto, dal 25 dicembre di nuovo nelle sale di mezzo mondo grazie a The Greatest Showman, progetto a lungo chiacchierato (quasi 10 anni di lavoro) ed ora pronto a prendere vita sul grande schermo, segnando l’esordio alla regia di un perfetto sconosciuto. Michael Gracey, 8 anni fa cercato dal divo Hugh Jackman per dar vita ad un biopic musicale di P.T. Barnum, visionario che verso la metà dell’800 dal nulla creò uno spettacolo ipnotico destinato a diventare un successo mondiale. ‘Il più grande spettacolo della Terra‘, circo di ‘freaks’ guidato da un autentico imbonitore, un ‘truffatore’ in grado di segnare per sempre l’intrattenimento americano (e non solo), inseguendo un sogno, una una fantasia. La propria.
Ad indossarne gli abiti colui che per 20 anni è stato Wolverine in sala, nascondendo sotto quei folti basettoni una riconosciuta dote canora. Candidato agli Oscar per Les Miserables, Hugh Jackman, 13 anni fa vincitore di un Tony Award per The Boy from Oz, torna al suo primo amore con prepotenza e ardore, ribadendo la propria straordinaria polidietricità recitativa. Il suo P.T. Barnum, indubbiamente non solo romanzato ma anche edulcorato in chiave di scrittura, domina la scena in lungo e in largo, all’interno di un musical che guarda senza vergogna alla struttura pop in stile Mouline Rouge di Baz Luhrmann, incrociandolo ai freak resi leggendari negli anni ’30 da Tod Browning.
Centrali, e davvero eccellenti, le canzoni scritte da Justin Paul e Benj Pasek, fino a pochi anni fa sconosciuti ai più ma dopo il Premio Oscar vinto grazie ai brani di La La Land sempre più ammirati e apprezzati. Un lavoro ricercato sui suoni, sulle vocalità, sul ritmo, che è battente e costante, invidiabile nella sua capacità di farsi immediato e trascinante. Gracey, che da esordiente in cabina di regia tiene sorprendentemente la barra della complicata e sfarzosa messa in scena, pennella una pagina di storia americana, fatta di sogni da concretizzare e vertici da scalare.
Barnum, squattrinato figlio di un sarto, raggiunge l’apice della popolarità e della ricchezza dando visibilità ai reietti, a quella diversità vista con fastidio, orrore. ‘L’arte più nobile è quella di rendere felici gli altri‘, ricorda nel finale un sorridente Jackman con cappello a cilindro e abito elegante, dopo aver cavalcato le stroncature della stampa (‘purché se ne parli‘), trasformato in spazi pubblicitari i luoghi più impensabili (le bottiglie del latte, le carrozze dei tram) e ideato campagne marketing innovative. Un genio della vendita dal nulla arricchitosi amato da una moglie e due figlie adoranti ma perennemente alla ricerca di quella posizione sociale da sempre negata, tanto da rischiare il patatrac con il lancio americano dell’usignolo svedese Jenny Lind, voce incantevole che provò a sedurlo, mettendo a rischio il suo matrimonio.
Gracey ripercorre l’intera esistenza di Barnum, condensando in 10 minuti cantati circa 30 anni di vita, in cui il figlio del sarto si fa uomo, si innamora e sposa l’amata Charity, interpretata da Michelle Williams. Un ruolo, quest’ultimo, purtroppo limitato da una sceneggiatura che ad altri personaggi si affida, lasciando la famiglia del protagonista sullo sfondo. Un sempre meno espressivo Zac Efron e Zendaya portano sulle rispettive spalle l’immancabile storia d’amore, apparentemente impossibile perché lui ricco drammaturgo ereditiero e lei non solo di colore ma semplice trapezista, in un’America discriminatoria e razzista, nonché ipocriticamente snob nei confronti di un certo tipo di intrattenimento. Il critico teatrale interpretato da Paul Sparks, da questo punto di vista, ne è la perfetta rappresentazione, perché incapace di confidare a se’ stesso il piacere provato nell’ammirare gli spettacoli di Barnum, non a caso puntualmente massacrati sul suo giornale.
11 brani musicali (la bellissima Never Enough non è cantata da Rebecca Ferguson bensì da Loren Allred) per 110 minuti di pellicola che si fa abbagliante (luci comprese) nella sua scenografica e coreografata rappresentazione, con cambi di scena improvvisi e il più delle volte sorprendenti, seguendo una strada da musical teatrale che non potrà che abbracciare l’apprezzamento dei più puristi. Una rappresentazione della realtà di un’epoca visibilmente addolcita (indubbiamente troppo), con multipli lieto fine e una traccia sociale solo vagamente critica nei confronti di un’America spaventosamente classista e violenta nei confronti di chi veniva visto come ‘diverso’. L’uscita natalizia non è casuale, per The Greatest Showman, musical ampiamente vendibile ad un pubblico mainstream, qui travolto dallo spettacolo di colori esplosivi, costumi sgargianti, coinvolgenti balli, esotici animali, canzoni da applausi e buone interpretazioni, limitate da una sceneggiatura tutt’altro che indimenticabile. Un circo musicale a tre piste, molto poco dark e visivamente al limite del kitsch, tra spasmodico amore, vibranti passioni e accettazione.
[rating title=”Voto di Federico” value=”6,5″ layout=”left”]
The Greatest Showman (Musical, 2017) di Michael Gracey; con Hugh Jackman, Michelle Williams, Rebecca Ferguson, Zac Efron, Zendaya, Paul Sparks, Yahya Abdul-Mateen II, Diahann Carroll, Fredric Lehne, Natasha Liu Bordizzo – uscita lunedì 25 dicembre 2017.