The Lady: locandina italiana più intervista a Luc Besson
Presentato in apertura al Film Festival di Roma, The Lady di Luc Besson uscirà il 23 marzo nei cinema italiani con distribuzione Good Films.
Presentato in apertura al Film Festival di Roma, The Lady di Luc Besson uscirà il 23 marzo nei cinema italiani con distribuzione Good Films. Basato sulla storia vera dell’eroica Aung San Suu Kyi, Premio Nobel per la Pace 1991, il film è stato da noi già recensito. Oggi, oltre alla locandina italiana ufficiale, ecco arrivare una ricca intervista al registra francese, che troverete dopo il saltino, diffusa dalla stessa casa di distribuzione.
In occasione dell’uscita del film patrocinato da Amnesty International sezione Italiana, la Good Films promuove la campagna Send a message per sensibilizzare l’opinione pubblica italiana a sostegno di Aung San Suu Kyi, leader del movimento democratico in Myanmar che da oltre 20 anni combatte contro le limitazioni alle libertà civili e politiche imposte dal regime militare. La signora Aung, The Lady come è conosciuta in tutto il mondo, è inoltre candidata in Birmania alle prossime elezioni politiche suppletive del 1° aprile. Ad interpretarla sul grande schermo una straordinaria Michelle Yeoh.
La pellicola di Besson racconta la straordinaria storia di Aung San Suu Kyi e di suo marito, Michael Aris. Si tratta anche del racconto epico della pacifica lotta della donna al centro del movimento democratico birmano. Nonostante la distanza, le lunghe separazioni e un regime pericoloso e ostile, il loro amore resiste fino alla fine. Una storia di devozione e di comprensione umana sullo sfondo dei disordini politici che continuano tutt’oggi.
Come è venuto a contatto con The Lady?
Un giorno Michelle è venuta a chiedere il mio aiuto. Mi ha detto che aveva per le mani una sceneggiatura avvincente su Aung San Suu Kyi e che stava cercando un produttore. Sarebbe stato magnifico se fossi stato libero per dirigerlo. In un primo momento le ho detto che non ero disponibile. Quando poi ho letto la sceneggiatura, sono rimasto a bocca aperta! Mi sono commosso per la storia di questa donna e ho scoperto di non sapere nulla di lei, se non quel poco che avevo letto sui giornali, la punta dell’iceberg. Sono tornato subito da Michelle per dirle che volevo collaborare al progetto e che se non aveva ancora trovato un regista, mi proponevo io. Era davvero felice. Poi, l’ha letta Virginie e ne è stata entusiasta. Michelle ci ha presentati al produttore inglese Andy Harries che ha ampliato la sceneggiatura con la sua società, la Left Bank Pictures ed è iniziata l’avventura.
In che modo ha personalizzato la sceneggiatura?
La sceneggiatura era scritta molto bene anche se a volte si avvicinava un po’ troppo al documentario. Abbiamo passato alcuni mesi a rielaborarla per darle un senso più ampio e cinematografico. Volevo trovare il giusto equilibrio tra il ritratto della lotta politica per la democrazia di questa donna e quelle che ci immaginiamo essere state le sue sofferenze. Per rendere la storia più credibile e ancora più coinvolgente avevo bisogno dei “cattivi”. Quindi dovevamo mostrare i generali e la Giunta Birmana che avevano governato il paese con un pugno di ferro per sessant’anni, nonché i rapporti tra Suu Kyi e l’esercito.
Dal momento che non ha potuto incontrare Aung San Suu Kyi di persona, quali libertà ha potuto prendere per costruire il suo personaggio?
Raccontare la storia di un personaggio ancora vivente senza poterlo incontrare è sempre frustrante. C’è il timore di non essere fedeli alla realtà o, al contrario, di restare troppo legati ad essa. Soprattutto quando non c’è nessuno in grado di guidarti. Abbiamo fatto ricerche leggendo tre o quattro libri su di lei che ci hanno aiutato a comprendere meglio il suo incredibile destino. La storia di Aung San Suu Kyi può essere fatta risalire a suo padre, il Generale Aung San. È stato il principale artifice della Rivoluzione Birmana che ha liberato il paese negli anni ’40. Tuttavia, sia lui che i suoi ministri sono stati assassinati quando lei aveva appena tre anni. Quando Suu Kyi ha riacceso la fiamma della Rivoluzione circa trent’anni dopo, ha potuto beneficiare dell’aura di suo padre. Proprio come la protagonista del film La scelta di Sophie, che si è ritrovata a dover decidere tra i suoi due figli durante la guerra, Suu Kyi ha dovuto scegliere tra la patria e la famiglia. Per tutto ciò che va al di là dell’aspetto storico, sono state le persone a lei vicine che ci hanno guidato, spiegandoci cosa fosse plausibile e cosa no. Abbiamo fatto molte ricerche e ci siamo documentati anche sulle persone all’interno della sua cerchia, come lo scrittore U Win Tin, rinchiuso in prigione per 25 anni, o Zargana, l’unico comico birmano che è stato condannato a 45 anni per le battute ironiche sui militari durante i suoi spettacoli.
E per quanto riguarda i generali?
È stato ancora più difficile perché avevamo pochissime foto e nessun libro è mai stato scritto su di loro. Abbiamo fatto affidamento sui rapporti incredibilmente ben documentati di Amnesty International sulle centinaia di migliaia di prigionieri birmani fondati sulle testimonianze di coloro che, liberati dopo qualche anno, hanno potuto raccontare la loro storia, la loro drammatica esperienza, e come venissero trattati dai militari. Devo dire, però, che il film ha smorzato un po’ questo aspetto perché alcune delle storie erano talmente cruente che avrebbero potuto perdere credibilità.
Ha capito subito che l’interpretazione di Michelle Yeoh sarebbe stata così intensa?
Perfino prima delle riprese, ci bastava vedere quanto Michelle fosse assorbita dal suo personaggio per capire che la sua interpretazione sarebbe stata eccezionale. Era ossessionata dal ruolo. A parte Mulan, non ci sono molti altri ruoli oltre ad Aung San Suu Kyi per un’attrice asiatica. Michelle non è solo quasi coetanea di Suu Kyi, ma le assomiglia anche! Quando arrivava sul set al mattino, i duecento birmani attorno a lei si zittivano chiedendosi se fosse davvero lei o no. Per entrare nella parte Michelle aveva a sua disposizione circa 200 ore di video di Suu Kyi, video che l’hanno aiutata ad acquisire la sua gestualità e il suo accento. Quando sei mesi dopo ho incontrato Suu Kyi, ho avuto l’impressione che fosse Michelle con vent’anni di più.
Ha dovuto imparare il birmano per il film…
Il birmano è sicuramente la lingua più difficile che ci sia da imparare. All’inizio pensavo che sarebbe stata facilitata dalla conoscenza di altre lingue, come il mandarino o il malese. Invece, mi ha spiegato che non era così e che le consonanti erano molto diverse. Ha passato sei mesi a imparare i testi in birmano. In particolare, aveva il discorso originale di Shwedagon, che le ha permesso di comprendere le idee di Suu Kyi. Si è esercitata molto, tanto che a volte è difficile distinguere tra l’attrice e la vera Suu Kyi. Sono rimasto colpito dal modo in cui è riuscita a rendere in modo efficace quel discorso particolarmente difficile. Ha preteso molto da se stessa perché era determinata a parlare un birmano impeccabile in modo che sembrasse la sua lingua madre.
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David Thewlis, che si cimenta in un incredibile doppio ruolo, risulta credibile tanto nei panni di Michael Aris che in quelli di Anthony.
È uno di quei magnifici attori inglesi con una formazione teatrale. Mi ha detto che non gli capitava da tempo di commuoversi leggendo un copione, come gli è successo questa volta. Da quando ha accettato la parte è stato un piacere avere a che fare con lui, un rapporto basato su buone maniere, amicizia e generosità. Inoltre, lui e Michelle si sono trovati molto bene.
E per quanto riguarda i bambini?
A Londra ne ho visti parecchi. Il criterio principale era la somiglianza. Poi veniva la motivazione, gli attori che abbiamo scelto credevano davvero molto in questo film.
Come ha fatto a ricreare la casa di Suu Kyi?
La casa era un elemento molto importante. Vi ha passato quattordici anni, tagliata fuori dal mondo, senza linea telefonica, stampa o televisione. Abbiamo cercato foto della casa, soprattutto degli interni, e abbiamo perfino usato Google Earth per ottenere le dimensioni esatte. Poi, abbiamo costruito la casa in maniera identica, fino al minimo dettaglio. Per fare un esempio, il pianoforte è della stessa marca di quello di Suu Kyi e le cornici delle foto dei suoi genitori sono identiche. Alcune delle persone che avevano avuto l’opportunità di visitare la casa si sono sentite disorientate, avevano l’impressione di entrare di nuovo in quella reale.
Quanto è stato difficile girare la scena della cerimonia del Premio Nobel?
Per questa scena, senza dubbio una delle più forti del film, avevamo accesso alle registrazioni originali dal momento che la cerimonia era stata ripresa dalle telecamere di tutto il mondo. È stato molto interessante per gli attori, soprattutto per David Thewlis e i bambini, perché hanno avuto a disposizione anche il minimo dettaglio a guidarli nell’interpretazione. D’altra parte, non avevamo nessuna immagine di Suu Kyi all’ascolto della cerimonia per radio, quindi è stata la prima volta che si sono potuti vedere questi due momenti concomitanti: l’assegnazione del Premio Nobel di fronte a una folla di duemila spettatori e questa donna, sola, in ascolto alla sua piccola radio.
La scena del blocco militare è stata ispirata interamente alla realtà?
Questa scena ha avuto luogo a Danubyu, a qualche centinaio di chilometri da Rangoon. Suu Kyi ha attraversato da sola il blocco per parlare al capitano, dicendo ai suoi sostenitori di aspettarla. I soldati non hanno avuto il coraggio di sparare. Al momento delle riprese, però, era ancora agli arresti domiciliari e non è stato possibile chiederle cosa fosse successo veramente. Il problema principale era non avere neanche una foto di Danubyu. Non avevamo idea di come fosse e avrei preferito che i nostri set fossero simili a quelli originali. Ho parlato con dei birmani che conoscevano qualcuno che era stato laggiù, ma non sono riuscito ad avere nessun resoconto diretto da persone presenti a Danubyu all’epoca dei fatti, probabilmente sono tutti morti o in prigione. Per cui, questa scena si può definire costruita poiché l’ho girata nel modo in cui penso siano andate le cose. Ma non l’ho inventata. Suu Kyi ha davvero attraversato, da sola, un muro di soldati armati.
Il discorso di Aung San Suu Kyi a Shwedagon incute un timore reverenziale.
Accanto a Michelle sul palco c’erano altre quindici persone circa del partito di Suu Kyi, la LND (Lega Nazionale per la Democrazia). Una delle comparse in piedi a fianco a lei, un uomo sulla sessantina, si trovava in mezzo alla folla che si era riunita venti anni prima a Rangoon per ascoltare il discorso. Ha passato l’intera giornata in lacrime, trovandosi sul palco a rivivere quel momento che aveva avuto un forte impatto emotivo su di lui. Un’altra giovane e talentuosa attrice birmana mi ha detto di essere nata quel giorno. I suoi genitori la prendevano sempre in giro dicendole che per colpa sua si erano persi il discorso!
Ovviamente era impensabile girare il film in Birmania…
Sapevamo che non avremmo mai ottenuto i permessi per le riprese, dato l’argomento trattato; in realtà, sarebbe stato lo stesso per qualsiasi argomento! Abbiamo girato le quindici ore di metraggio in Tailandia, non lontano dal confine, in un paesaggio che ricordava quello birmano. Tuttavia siamo riusciti a riprendere da tutte le angolazioni la Pagoda di Shwedagon, situata al centro di Rangoon, e abbiamo ripreso gli attori con uno schermo verde alle spalle col quale potevamo coprire la pagoda. Abbiamo anche girato a Rangoon (con una telecamera nascosta) e l’impressione è che il film sia stato realizzato interamente in Birmania, anche se in realtà si tratta solo di una trentina di riprese.
Com’è stato girare in Thailandia?
Un piacere. Contrariamente a quanto si pensa in Europa, molti film vengono girati lì ogni anno. Le troupe sono professionali, rapide e cordiali e fanno un ottimo lavoro. L’aspetto più complicato – a parte il caldo e l’umidità nauseanti— riguardava la comunicazione, visto che ho dovuto far tradurre in inglese le mie richieste, che poi sono state tradotte in Thai e poi ancora in birmano per gli attori. Il responsabile del casting, però, è stato grandioso e avevo un aiuto regista molto bravo con un ottimo senso dell’organizzazione. In questo modo ho potuto lavorare seguendo i miei tempi, con giornate lavorative piene e poche pause. Credo che ci fosse una buona energia per il film e per gli attori.
Come ha lavorato con il compositore Eric Serra?
Ho conosciuto Eric quando avevamo diciassette anni e aveva curato la musica per il mio primo cortometraggio. Perciò abbiamo un rapporto amichevole e affettuoso, anche se i suoi ritmi di lavoro sono l’opposto dei miei. Mi piace pianificare tutto in anticipo, mentre lui preferisce riflettere, osservare, prendere tempo. Poi, quando mancano solo undici settimane alla lavorazione – pochissimo! – va in panico, smette di mangiare, smette di respirare e lavora. Riesce a comporre solo sotto estrema pressione. È molto faticoso per lui. Quando finisce, dorme per venti giorni di seguito. Fa sicuramente parte del suo talento, ha bisogno di pressione perché vive con la sua musica.
La liberazione di Aung San Suu Kyi nel Novembre 2010 deve essere stata una sorpresa.
Non ci aspettavamo che succedesse, perché era prigioniera da più di dieci anni consecutivi. Infatti, era una delle ragioni per girare il film: era il nostro modo per dire che non abbiamo dimenticato questa donna e la sua lotta. La sua liberazione sarebbe dovuta avvenire tempo prima, invece è accaduto nel bel mezzo delle riprese in Thailandia. La prima reazione è stata di entusiasmo, poi è sopraggiunto il disorientamento. Stavamo girando questo film proprio per dare un contributo alla sua liberazione e ora venivamo a sapere che questo stava accadendo ancora prima della fine delle riprese. Quella mattina di Novembre 2010, avevo girato la sua prima liberazione nel 1995: usciva dal cancello di legno, saliva le scale e salutava la folla in attesa. Quando siamo tornati in hotel la sera abbiamo acceso la televisione e abbiamo visto lo stesso cancello e Suu Kyi vestita quasi allo stesso modo, con gli stessi fiori nei capelli, salire le scale e salutare.
Cosa avete provato?
È stato come se qualcuno avesse rubato il metraggio del mattino. Per un attimo mi sono chiesto cosa stesse succedendo e se il film avesse ancora senso. Tuttavia, siamo venuti subito a sapere delle restrizioni alla sua libertà. In realtà non era cambiato tanto da quando era agli arresti domiciliari. Se lascia il suo paese, non può più farvi ritorno. Ufficialmente il suo partito non esiste più. Non può esprimersi liberamente, né tantomeno organizzare assembramenti di persone. I suoi diritti fondamentali sono calpestati, anche se è stata liberata. La conclusione è che il film ha mantenuto il suo significato. La stampa ha divulgato un discorso di Suu Kyi: “Usate la vostra libertà, per aiutarci a ottenere la nostra”. È un appello a tutti gli artisti.
Crede che il film possa servire a sensibilizzare le coscienze?
Oltre alla Birmania e alle sofferenze personali di questa donna, quello che mi interessa di questo film è l’eco che potrebbe avere in tutti i paesi democratici. Dovrebbe farci rendere conto della libertà di cui godiamo in Francia, dove nessuno va in carcere per aver letto un giornale, dimostrando allo stesso tempo quanto sia fragile la democrazia. In Birmania, la maggior parte dei seggi parlamentari è riservata ai militari: non è più una democrazia. Inoltre, il 95% della metà dei seggi rimanenti è occupato da ex capi dell’esercito. È la farsa di un paese che vuole sponsorizzare un’immagine democratica per attirare affari e turismo. Venti anni fa, il popolo birmano aveva espresso la propria volontà alle elezioni. Il partito di Suu Kyi, la LND, aveva vinto 392 seggi. I capi dell’esercito solo sette. Ma i risultati delle elezioni non sono mai stati presi in considerazione. È nostro dovere osservare le nostre democrazie e controllare che la libertà di parola, i diritti umani e la costituzione vengano rispettati.
Com’è andato l’incontro con Aung San Suu Kyi?
Innanzitutto, prima ancora di incontrarla, volevo che venisse messa a conoscenza del progetto. Dopo tre mesi di tentativi siamo riusciti a farle arrivare un messaggio. Quando finalmente l’ho incontrata, mi sembrava di essere di fronte a Gandhi. È impossibile non sentirsi piccoli e stupidi al cospetto di questa donna che irradia cortesia, gentilezza e semplicità. Non ha paura di niente. Neanche sessant’anni di prigione le farebbero cambiare idea. Per lei conta solo che la sua gente sia libera di avere accesso in egual misura alle ricchezze del paese. Non ha interessi personali. È una lezione di umiltà. Dopo averla incontrata, non ci si può più lamentare di niente! Vorresti sapere tutto di lei e lei non fa che chiedere di te. È curiosa e non le interessa scrivere un libro sulla sua vita. È una persona ammirevole.