The Post: recensione in anteprima del film di Steven Spielberg
Lo Spielberg narratore resta difficile da superare, con o senza effetti speciali. Ma The Post finisce con l’essere rilevante non soltanto in relazione al mezzo, bensì anche sul fronte politico, se non altro a conferma dell’aria che tira a Hollywood, non certo quale contributo reale all’urgente dibattito su «fake news» e dintorni
Ad un certo punto viene fuori una domanda: perché restare in Vietnam pur sapendo di non poter vincere? Come spesso accade, una sola domanda, posta in un certo modo peraltro, non esaurisce questioni molto complesse. Le risposte però ci vanno vicino. In quel caso pare andò così: il 10% credeva di aiutare i sud-vietnamiti; il 20% per tenere lontano i comunisti; il 70% per evitare l’umiliazione di una sconfitta americana. Che ci sia parecchio della cultura statunitense dell’epoca in questo piccolo sondaggio può essere dibattuto, ma in nessun caso negato.
Spielberg infila questo dato in uno dei passaggi più delicati di The Post, ovvero quando colui che ha sottratto la scottante documentazione sul coinvolgimento degli USA nella Guerra in Vietnam – facente parte di uno studio cui diede vita il Segretario McNamara, passato alla cronaca sotto la dicitura di Pentagon Papers – sta consegnando parte di essa ad un giornalista del Washington Post. Ci troviamo in una normalissima stanza di un motel, come tante se ne sono viste; pile di carte dovunque, per terra, sui letti, sul tavolo. Qualcosa di così apparentemente innocuo, ingombrante finanche, è in procinto di cambiare le sorti di una presidenza, dunque la storia del Paese.
Non passa ancora una volta inosservato l’interesse di Spielberg verso le meccaniche di una vicenda, il suo prendere corpo in maniera per l’appunto visibile. Prima si discute, si litiga, a conti fatti si contratta: non appena però la macchina si mette in moto è tutto un battere delle dita su macchine da scrivere, squilli del telefono, passi a velocità sostenuta; e poi ancora il colosso tipografico che macina lettere, parole, frasi e poi una pagina, due, tre, un intero giornale, migliaia di giornali. Un processo che fa luce su una componente, quella che più di tutte è affare del cinema, ossia il tempo; Spielberg ci lavora, lo scompone, ora lo dilata, ora lo velocizza, senza ricorrere ad escamotage di natura tecnica bensì attraverso i codici della narrazione.
Parliamo di un cineasta che oramai, anche a costo di risultare banali per quanto ripetitivi, ha un controllo sul mezzo come pochissimi altri, ed in più a modo suo. Si direbbe quasi che The Post sia un film piccolo, ed in fondo, a dispetto della tematica, che invece è enorme, lo è. Sembra un lavoro su commissione, che però il regista porta a termine con nonchalance, gli bastano quelle due/tre indicazioni per poi procedere senza alcun intoppo, individuando tutto il resto da sé.
Come altri, sì, pure questo è un film a vocazione propagandistica, non meno, per citarne uno recente, che Il ponte delle spie; e non c’è nulla di così scandaloso in questo. È sin troppo palese il richiamo ad una vicenda risalente a qualche decennio fa per sottoporre analogie, vere o presunte, con l’attuale presidente, ovvero Trump, alcune delle quali inquietanti, come il bando che Nixon pretese proprio rispetto al Post, affinché non entrasse più alcuno dei suoi giornalisti alla Casa Bianca, il che ricalca il provvedimento analogo preso proprio da Trump ai danni, per citarne due, di CNN e New York Times, risalente al febbraio scorso.
Tuttavia si tratta di un riferimento troppo diretto, sottoposto peraltro mediante una foga che quasi cozza la generale eleganza attraverso cui Spielberg ci porta in quelle stanze dove proprietario (Meryl Streep) e capo-redattore (Tom Hanks) s’incontrano e si scontrano mentre sono tenuti a prendere decisioni oltremodo delicate. Finendo ahimè leggermente con l’offuscare il dramma umano di queste persone che subiscono una pressione incredibile, a tutto vantaggio di quel messaggio che si vuole percepibile, forte, senza che lo diventi per puro caso o per imperizia. Non esiste infatti che uno Spielberg così sicuro e padrone della materia, ottenga qualcosa di diverso rispetto a ciò che intende raccontare o mostrare; inutile anche solo supporlo.
Ci si barcamena perciò tra l’innegabile bravura – non solo sua, ma anche della Streep, per esempio, così come di altri dipartimenti, in primis la fotografia, intrisa il giusto di quell’alone retrò – e lo scendere a patti con l’urgenza politica di The Post, a cui viene concesso un po’ più di quello che le spetterebbe. Una licenza che, sia chiaro, da parte di chi scrive non può oscurare la scioltezza, quasi la naturalezza con cui questa storia si sviluppa sotto i nostri occhi, con il solito piglio affabulatorio forse del più grande storyteller vivente; vi è però che certa parzialità non ci aiuta ad inquadrare un fenomeno su cui invece c’è parecchio da chiarire, in un periodo in cui all’espressione «fake news» ricorre chiunque per descrivere tutto e il contrario di tutto.
C’è un momento, forse il più lucido in tutto The Post, in cui McNamara e Katharine Graham, il personaggio della Streep, discutono proprio su questo, ovvero in merito all’utilità di pubblicare un dossier del genere mentre si è ancora nella bagarre, sociale, politica e mediatica, con la ferita del Vietnam che non si è ancora cicatrizzata. Si tratta di un’osservazione fondata, che è facile per noi cassare come opportunistica e tendenziosa, ma che al contempo vale anche per quanto sta accadendo in relazione all’attrito tra i cosiddetti media ufficiali e Donald Trump. Sollevare dubbi a tal proposito non significa parteggiare per il McNamara di turno, ma non pare assurdo domandarsi se sia anzitutto utile, prima ancora che possibile, elargire sentenze quando si è così immersi nel corso degli eventi. Alla luce peraltro di una diatriba viziata a tutti livelli da un atteggiamento particolare, in non pochi casi avulso da qualsivoglia buon senso.
Da un lato, perciò, il puro piacere per come il dispositivo cinematografico viene maneggiato, il gusto per il racconto attraverso le immagini; cose semplici, tipo il personaggio di Bob Odenkirk (tanto bravo pure lui) che, sul finire, avverte una scossa mentre è seduto davanti alla sua scrivania, un terremoto finto, che sta in luogo di qualcos’altro, innescato dai macchinari al piano di sotto mentre cominciano a stampare le tanto attese pagine rivelatrici; oppure l’umorismo appena accennato in relazione allo spostamento di tutto quel malloppo di carta, stipato in delle scatole di cartone per le quali bisogna occupare un posto passeggero sull’aereo ed infine necessitano di più persone per essere trasportate, procedura speculare a quella dello Snowden di Oliver Stone, che fa tutto da solo e senza fatica (fisica, non certo psicologica). Menzione peraltro opportuna, dato che i vizi di The Post, seppur di segno diverso, sono analoghi a quelli di cui risente l’ultimo lavoro di Stone.
Dall’altro, il contenuto politico, di certo non fine a sé stesso, ma che non lascia alcuno spazio di manovra allo spettatore, il quale se lo vede un po’ cadere addosso, sulla nuca. Il Nixon girato di spalle, con la musichetta mefitica, da villain d’altri tempi; si tratta di misure la cui portata è fin troppo sproporzionata rispetto alla generale tenuta del film, che su quasi tutti gli altri versanti s’industria molto bene nel veicolare gli eventi, il cui sviluppo procede lungo un’immaginaria linea retta che non viene mai meno, dallo schermo nero iniziale fino ai titoli di testa. Hollywood chiaramente coltiva la sua di posizione rispetto a quanto sta avvenendo negli USA dell’era Trump, tanto più che i prossimi Oscar non faranno che reiterare il discorso anche tramite il trattamento che presumibilmente verrà riservato a questo film; nondimeno ci si aspetta che certe posizioni, lungi dall’essere taciute, vengano altresì filtrate in maniera più equilibrata, mentre questo «o noi o loro» non contribuisce ad alcunché. Anzi, finisce quasi per depotenziare lavori seppur notevoli come questo The Post.
[rating title=”Voto di Antonio” value=”7.5″ layout=”left”]
The Post (USA, 2017) di Steven Spielberg. Con Meryl Streep, Tom Hanks, Sarah Paulson, Bob Odenkirk, Tracy Letts, Bradley Whitford, Bruce Greenwood, Matthew Rhys, Alison Brie, Carrie Coon, David Cross, Jesse Plemons, Michael Stuhlbarg e Zach Woods. Nelle nostre sale da giovedì 1 febbraio 2018.