The Postman’s White Nights: Recensione in Anteprima del film di Andrei Konchalovsky
In The Postman’s White Nights il russo Andrei Konchalovsky si sofferma con occhio disincantato su una piccola regione a nord della Russia, seguendo le ordinarie vicende dei suoi abitanti, ma specialmente di un postino
Negli ultimi anni mi sento travolto dal dubbio di aver realmente compreso l’essenza del cinema. (Andrei Konchalovsky)
La frase con cui apriamo questo scritto arriva direttamente dal regista Andrei Konchalovsky, che ha introdotto il suo The Postman’s White Nights come un film per lo più contemplativo. Il che, per un russo, comporta un ripiegare spontaneo sul mistero, su quanto c’è di inafferrabile attorno a noi. Questo suo ultimo lavoro, non a caso, non chiede di essere capito, quanto semplicemente osservato. Né promette partecipazione, perché Konchalovsky qui appare serenamente restio all’idea di prendere una posizione, ragionare sui conflitti. Preferisce accendere la macchina da presa e pretendere che questo suo film, che è di finzione ma con personaggi reali, sia un documentario. Un’operazione simile, seppure con le dovute proporzioni, a quanto fatto da Ulrich Seidl con Im Keller, Fuori Concorso quest’anno.
Il protagonista è Ljokha, un postino che consegna la posta in un luogo sperduto a nord della Russia. La particolarità della zona è che si distende attorno a un lago, perciò Ljokha per muoversi ha necessariamente bisogno della sua barca. Le prime scene si soffermano sul protagonista, così come su qualche comprimario, atti a fare ciò che più o meno dovunque si fa una volta alzati; ci si prepara la colazione, ci si veste e si sbrigano le proprie faccende. In realtà, però, Konchalovsky è di gran lunga più interessato a questo strano contesto avulso dalla nostra epoca, e che non a caso vive come se fosse intrappolato in qualche secolo addietro.
C’è tanta ordinarietà in The Postman’s White Nights, ma questo non significa banalità. Nella prima parte è come se il regista russo volesse farci prendere confidenza non tanto con le persone, quanto con quei luoghi. Che parlano, proferendo parole che non si conoscono. Elemento che si sta sempre più consolidando nell’ambito del cinema russo degli ultimi anni è questa puntuale virata, a un certo punto del film, verso il mistico. Fu così due anni fa nella black-comedy di Balabanov proprio qui al Festival di Venezia con Mee too. Quest’anno invece, in quel di Cannes, Leviathan ha approntato un discorso che proprio sul finire conclude su una traccia analoga.
Basti pensare a quella citazione da La tempesta di Shakespeare a fine film, ovvero «Da dove viene questa musica?». Ljokha accompagna suo “nipote” in una piccola gita presso una zona molto isolata, dove andava da piccolo; si dice che quel posto sia magico e che una strega sia sempre pronta a cacciare malamente gli ospiti non desiderati. È una scena semplice, dove a fare la differenza è proprio il brano di sottofondo, che a più riprese incide sulla storia, aggiungendo non poco alla carica di certe immagini. Anche perché, salvo davvero rari casi, Konchalovsky non pone in primo piano la natura, malgrado l’atmosfera naturalistica sia piuttosto centrale.
Aspetto curioso, dunque, specie per chi è totalmente estraneo a certe zone e a certi popoli, diviene dunque l’atteggiamento dei singoli, così come della comunità, inseriti in quel paesaggio specifico. Come fosse una finestra su un altro pianeta, il regista russo in fondo confeziona un sci-fi, poiché i suoi personaggi sono alieni, che si comportano da alieni, quindi non di rado sfuggenti, incomprensibili e non certo per mere barriere linguistiche. Tuttavia non viene anche solo adombrato alcun giudizio di merito: queste persone esistono e vanno semplicemente “raccontate”. E che a suo modo si tratti di fantascienza ce lo suggerisce quella base aerospaziale che si trova a un tiro di schioppo rispetto a dove si svolgono le vicende; e con esso il finale, con quel razzo spaziale scagliato in orbita sul quale potremmo benissimo esserci noi, i quali, dopo aver esplorato questo strano territorio, torniamo alle nostre vite sulla Terra.
The Postman’s White Nights va recepita come un’opera essenziale, asciutta sotto ogni aspetto: stilistico, di scrittura, di recitazione e chi più ne ha più ne metta. Eppure, anche se parecchio sotto pelle, riesce in qualche modo ad insinuarsi. Tutti quegli episodi quotidiani rischiano di sfiancare, bisogna ammetterlo, ma nessuno di questi lo si può archiviare come materiale in più; tutto è significativo in The Postman’s White Nights, proprio perché non eccede, procedendo per sottrazione anziché il contrario. Un oggetto da contemplare, dunque, come a ragion veduta osserva lo stesso regista, che dà vita a un frammento fra i più intriganti di questa strana ma spesso stimolante Mostra. Che non a caso va assimilato così come un tempo si diceva riguardo alle fiabe: «Fiaba oscura, nespola dura – la paglia e il tempo te le matura».
Voto di Antonio: 7
The Postman’s White Nights (Belye nochi pochtalona Alekseya Tryapitsyna, Russia, 2014) di Andrey Konchalovskiy. Con Timur Bondarenko, Irina Ermolova ed Aleksey Tryapitsyn.