The Way Back: Recensione in Anteprima del film di Peter Weir
A tre giorni dall’uscita nelle nostre sale, Cineblog recensisce per voi l’ultimo film di Peter Weir, The Way Back
18 milioni di prigionieri, quasi 5 milioni di morti. Questi sono i dati, difficili da accertare, che Anne Applebaum riporta nel libro che le è valso il premio Pulitzer, ossia Gulag: A History. Ma dove non è riuscito un personaggio del calibro di Solženitsyn, con il suo celeberrimo Arcipelago Gulag, difficilmente potrà mai riuscire alcun altro. E’ un’ignoranza invincibile, utile e auto-indotta quella che ha da sempre permeato la tremenda cronaca dei Gulag sovietici.
Secondo quanto calcolato dalla Hoover Institution, quel 12% dei 195 milioni di abitanti incarcerati fecero della burocrazia del Gulag uno dei più grandi “datori di lavoro” di tutta l’Europa. Impossibile, oltre che inopportuno, descrivere meglio del già citato Solženitsyn l’orrore di un contesto come quello. Tanto “colti” in materia di Olocausto quanto “impreparati” su quest’altra, vergognosa tragedia. E come l’altra, pessima da qualunque punto la si osservi.
Peter Weir ha probabilmente tentato di abbattere questa barriera invalicabile, allorché decise di riadattare per il grande schermo la storia vera ma romanzata tratteggiata nel libro Tra noi e la libertà, scritto da Slavomir Rawicz, attraverso The Way Back. Con quel suo gusto per la verosimiglianza, paradossalmente messo in luce anche in un film che della finzione nella finzione fa il suo punto forte, ossia The Truman Show.
Non bastassero le dichiarazioni del regista australiano a riguardo, la pellicola denota di per sé una certa eloquenza. Siamo in una quanto mai rigida notte invernale del 1940, il cui gelo, in uno dei tanti Gulag del Partito, è acuito da una terribile e sofferta decisione: evadere. Sette prigionieri decidono quindi di sfidare il clima e le condizioni proibitive della sconfinata steppa siberiana, dandosi ancora meno probabilità di sopravvivere – “Non sono le nostre armi, i nostri cani o le nostre recinzioni che formano la vostra prigione. La Siberia è la vostra prigione!“, dirà nel suo discorso di “benvenuto” un comandante.
Ed è proprio all’interno di questo solco che va rintracciata la prima chiave di lettura del film di Weir, ossia nell’ostilità della natura. L’ambiente non è l’unico nemico dei nostri protagonisti, ma è senza dubbio quello che mette più a repentaglio le loro vite. Le condizioni climatiche, la scarsità di cibo, la mancanza di riparo, sono tutti temi ricorrenti e che, anche a distanza di parecchie sequenze, tornano ciclicamente a far capolino sullo schermo.
Ciò che cambia rispetto a quando si trovano rinchiusi nel Gulag non è il rischio, anzi. E’ la prospettiva, cioè quella di morire prima che di vivere da uomini liberi. Ed è proprio mediante i vari eventi catalizzatori di questo ostinato e folle viaggio che la trama, il suo significato, prendono forma.
L’impegno del regista australiano lavora su due livelli, quello introspettivo e quello spiccatamente plateale. Alla riproduzione di un’ambientazione quanto più possibile fedele a quella reale dell’epoca, si alterna un approfondimento delicato e discreto dei vari profili che compongono il gruppo di folli. C’è Valka (un credibilissimo Colin Farrell), pericoloso criminale di strada, un Urki, un’arma spietata per fare pressione sui detenuti politici. C’è Mr. Smith (Ed Harris), l’enigmatico ingegnere americano venuto in Russia a seguito della Grande Depressione. Khabarov (Mark Strong), attore russo punito per presunte simpatie reazionarie, per via di un ruolo interpretato. C’è Tamasz (Alexandru Potocean), artista e cuoco, Kazik (Sebastian Urzendowsky), Voss (Gustaf Skarsgård) e Zoran (Dragos Bucur). Ma soprattutto c’è Janusz (Jim Sturgess, azzeccato in questo ruolo), che diventa subito il leader di questo gruppo.
Ed è quasi superfluo evidenziare come e quanto una simile convivenza, in condizioni così estreme, possa essere foriera di spunti pregnanti. Ad essere messa alla prova non è semplicemente la capacità di “agire di gruppo”, ma l’umanità stessa dei protagonisti. In un clima di iniziale e reciproca diffidenza, quasi a voler ricreare in piccolo il medesimo contesto generato dall’allora Partito Comunista, i vari personaggi devono imparare a conoscersi. Ma soprattutto, ad aiutarsi.
E dato che, come accennato, la componente naturalistica assume sin da subito un ruolo decisivo, la fotografia non può che conformarsi a tale esigenza. Colori smorti e tonalità fredde sono il leitmotiv di questo aspetto squisitamente tecnico di The Way Back, che a nostro parere rende in maniera eccezionale in quasi tutte le fasi meno che in quella relativa al deserto del Gobi. Questione di gusti, anche perché probabilmente i progressi della narrazione raggiungono un punto in cui il tenore delle immagini necessita di qualche variazione.
Ma è una lotta, immane, violenta. Mr. Smith lo dice apertamente allorquando coglie in flagranza di menzogna la giovane e bella Irena (Saorise Ronan, qui dinanzi ad un prova difficile e tutto sommato superata piuttosto dignitosamente): “Tutti noi abbiamo fatto cose terribili per sopravvivere. Quindi non dire più bugie d’ora in avanti“. L’ingresso della Ronan, peraltro, segna un punto di svolta: in un gruppo di uomini provati dalla fame, dal freddo, dall’angoscia dell’essere ricercati e quant’altro, solo l’ingresso di una piccola, amabile donna poteva riportare un certo equilibrio. Ed infatti, dopo le prime esitazioni, Irena funge da collante all’interno della combriccola.
Questo è The Way Back, un film sulla guerra in cui non c’è traccia della guerra. Il conflitto è interiore, costante e spaventoso. Una lotta indescrivibile contro sé stessi, in cui il dato esterno non è che uno degli elementi tali da rendere questo continuo scontro ancora più insostenibile.
Regia senza sbavature quella di Weir, inutile sottolinearlo. Proprio in virtù di questa sua aspirazione realistica, il taglio rasenta a tratti quello documentaristico, se non fosse per certi movimenti di camera e restringimenti di campo, comunque assolutamente ben integrati. Un montaggio ruvido, secco, invece, quello di Lee Smith, alla sua ennesima collaborazione col regista australiano. I due dimostrano un’intesa encomiabile, specie alla luce di certi stacchi a dir poco “traumatici”, che ci scuotono e ci fanno riprendere da certe scene magari più da Letteratura che da Cinema, ma comunque interessanti nell’economia del racconto.
Non riuscire a cogliere tale ambizione, ossia quella di mostrarci quanto più autenticamente possibile ogni singolo essere umano calato in quella surreale vicenda, potrebbe essere devastante. Sì perché non l’azione, non la suspence o altre componenti che avrebbero potuto dar vita ad un bel thriller vanno annoverate quali pietanze principali di The Way Back. E’ un viaggio quello attraverso cui ci conduce Weir, e che quindi va assaporato e vissuto lungo il cammino più che in funzione della meta, su cui praticamente mai si hanno dubbi durante la proiezione – peraltro non espressamente “leggera”, visto i suoi 128 minuti.
Ed è proprio lì, quando realizziamo tutto ciò, che quel way back assume consistenza. Tanto tempo fa, la traduzione più immediata, proprio ad evocare la distanza non solo temporale ma anzitutto mentale che ci separa da certi eventi. Eppure ci piace giocare con le parole ed invertire l’ordine, trasformando quel way back in back way. Qui sì che il livello di comprensione tocca vette precluse finché ci si “limita” al titolo originale. Back way, via del ritorno, come quella che i superstiti di quell’avventura (che li segnerà per sempre) intraprendono già dalle prime battute del film. Ma lo si capisce meglio solo sul finire, quando prima di raggiungere la loro meta, passano nuovamente da una zona totalmente innevata e pressoché desertica. Come lo era l’aberrante Siberia quando erano partiti.
Voto di Antonio: 7
The Way Back (USA, 2010). Di Peter Weir, con Dragos Bucur, Colin Farrell, Ed Harris, Alexandru Potocean, Saoirse Ronan, Gustaf Skarsgård, Mark Strong, Jim Sturgess e Sebastian Urzendowsky. Nelle nostre sale dal 6 Luglio.