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Tokyo Tribe: recensione in anteprima del film di Sion Sono

Torino Film Festival 2014: Tokyo Tribe è il musical secondo Sion Sono. Una inarrestabile sinfonia hip pop con botte da orbi e trovate cult, che conferma l’ennesimo nuovo percorso cinematografico del regista nipponico.

pubblicato 22 Novembre 2014 aggiornato 30 Luglio 2020 20:20

Il percorso dell’ultimo cinema di Sion Sono (quello post-Cold Fish, per dire) è non poco singolare. Prima il dittico post-Fukushima di Himizu e The Land of Hope, molto probabilmente i suoi film più “dolci”, soprattutto il secondo. Poi un nuovo dittico, che pur avvicinandosi ai suoi titoli più celebri danno la sensazione di una nuova era del cinema di Sono.

Why Don’t You Play in Hell? e ora questo Tokyo Tribe rappresentano la sua vena più folle e giocosa possibile. Che non significa affatto che il regista giapponese più interessante del momento si sia adagiato su una formula più semplice, o che venga meno alla sua “coerenza” (e così il discorso autoriale è salvo, per i fan a cui interessa). Significa solo prendere atto che ormai da Sono o ci si deve attendere qualcosa del genere o bisogna aspettarsi un’altra virata.

Tokyo Tribe comincia su un tetto. Due bimbi giocano assieme e uno dice all’altro di voler far diventare Tokyo un posto migliore. Da qui comincia un lunghissimo pianosequenza che catapulta lo spettatore nel bel mezzo di una capitale nipponica in delirio. Una Tokyo notturna, piena di luci al neon e colori evidenziatore, popolata da sbandati, prostitute e poliziotti inutili, e in cui regna un casino che manco lo si può immaginare. E, soprattutto, una Tokyo con tanta musica.

La città, divisa in zone, è governata col pugno di ferro da gang criminali che, nello spartirsi i traffici illeciti, riescono a convivere per miracolo. Lo scontro è sempre dietro l’angolo e l’irreparabile accade quando Merra, il boss del quartiere a luci rosse di Burkuro, tende una trappola a Kai, componente della banda dei Musashino Saru, verso cui prova un odio implacabile. Il suo scopo non è solo quello di annientare i rivali, ma anche di attirare a sé Kai, che vede come la sua nemesi e di cui, per questo, vuole disfarsi.

Maps of the sounds of Tokyo! Ogni gang si autointroduce allo spettatore cantando a ritmo di hip pop e rap. Lo fa anche Mc, un ragazzino della squadra di Musashino (interpretato da Shôta Sometani, con Sono già in Himizu), che è colui che fa un po’ da “Cicerone” allo spettatore attraverso la città e attraverso la vicenda. Vicenda che è ambientata tutta in una notte (e una mattina, più postilla finale), ed scandita da orari sottolineati dal rumore di una sveglia.

Tokyo Tribe, nuovamente tratto da un manga, è il musical secondo Sion Sono. Il suo film pieno di botte e depravazione viene solo raramente abbandonato dalla musica, davvero onnipresente. Non si smette mai di cantare: ci sono persino una vecchia dj che lancia hit a raffica e una versione lounge-rap di Lascia ch’io pianga. Un vero e proprio caos visivo e sonoro che a suo modo ben si sposa con la situazione che il film racconta. Funziona quindi anche come una giostra: a volte può nauseare e un po’ annoiare, però a tratti esalta per davvero.

Di base c’è però sempre in Sono un interesse (serio!) a voler parlare della società nipponica. Il regista mette sostanzialmente in scena l’estremizzazione massima di quello che è il Giappone oggi: maschiocentrico e maschilista. Il regista si fa beffa del maschio etero, che oltre ad avere la fissa del sesso (e delle donne maggiorate) si confronta con gli altri su chi c’è l’ha più lungo: perché alla fine si riduce a quello il discorso. Potrà anche far storcere il naso, ma è evidente che Sono ci dice che ogni guerra parte da “là sotto”.

Certo, poi si arriva a tutta una parte finale che fa impallidire anche proprio quella di Why Don’t You Play in Hell?: una vera e propria follia in cui conta tutto. Si lavora ovviamente di accumulo, ma il divertimento, considerando anche che si tratta di un film perennemente in tono esagerato e senza sosta (quindi “monotono”), è garantito. Dal punto di vista scenografico, poi, bisogna solo togliersi il cappello. E la “stanza dei mobili” è un’idea diabolica e bellissima.

Tra l’ennesima stoccata a Tarantino (“Kill Bill?”, “No, sono Bruce Lee!”), un orrido carro armato in CGI e un tranciatore di corpi, si arriva ad un’ultima canzone finale dal messaggio un po’ scontato. Però non bisogna neanche storcere troppo il naso… Se invece non si è pronti ad accettarlo, restano pur sempre tanti fuochi d’artificio e -non a caso- terremoti, senza contare anche una fuga dal carcere come non l’abbiamo mai vista prima.

Voto di Gabriele: 7

Tokyo Tribe (Giappone 2014, azione 116′) di Sion Sono; con Tomoko Karina, Akihiro Kitamura, Ryôhei Suzuki, Hitomi Katayama.

Torino Film Festival