Torino 2012 – Pavilion: recensione in anteprima (Concorso)
Vita quotidiana nell’America di oggi, frammenti di vite adolescenziali: è Pavilion, il discusso film americano in concorso a Torino 2012. Leggi la recensione di Cineblog.
Come iniziare una recensione su Pavilion? Mettendo un po’ le mani avanti, visto che qui al 30. Torino Film Festival, dove il film è in concorso, è stato accolto in modo men che freddo. Fughe in massa dalla sala, stroncature, e chi più ne ha più ne metta. Ma non bisogna stupirsene affatto, anzi: Pavilion è puro cinema indie statunitense hardcore, pronto a farsi odiare dalla maggior parte di ogni tipo di pubblico.
Lo stile lo si definirebbe documentaristico, ma il regista Tim Sutton preferisce usare la parola “osservazionale”: perché è vero che Pavilion si pone come obiettivo quello di essere il più fedele possibile alla “verità” della gioventù, ma non è un documentario. Resta un’opera di fiction, con attori non professionisti che portano tanto di loro stessi all’interno dei loro ruoli, ma non sono davvero quei personaggi.
Pavilion è un film che è stato definito anche impressionista, per come dipinge con poche pennellate frammenti di esistenze di diversi personaggi. Il pubblico, di fronte ad un’opera così estrema e anti-narrativa, può reagire in due modi decisamente opposti: o fuggire a gambe legate urlando alla schifezza, oppure restarne addirittura ipnotizzati, come in fondo è capitato a chi scrive.
Adolescenti durante la loro quotidianità. Giocano a “spararsi” con pistole giocattolo e si fanno male davvero; vanno in giro in bici; fanno gite in barca e lunghe nuotate nel lago; vanno al cinema a vedere un film in 3D; fanno scampagnate nei boschi; stanno tutti assieme in branco, oppure si isolano dal resto del mondo, magari a fissare da dietro le finestre proprio altri ragazzi, scrutandoli con curiosità ed attenzione.
Questo è sostanzialmente Pavilion, figlio di Van Sant e di altri autori indie. Lo sguardo di Sutton è oggettivo ma commosso, e ci regala un’ode alla bellezza della gioventù. La macchina da presa inizia a seguire la vita di un adolescente, poi si “innamora” di un altro personaggio e comincia ad osservarne la sua. Poi s’infatua di un altro ragazzo ancora, torna indietro, e cambia punto di vista nuovamente. Restituisce, in 72 minuti, la “verità” dell’adolescenza, senza spiegazioni o interpretazioni: è dura mandar giù qualcosa quando nessuno ci dà un appiglio sociologico, eh?
All’inizio dell’opera c’è Zach, che assomiglia all’Alex di Paranoid Park e va pure in skateboard. Poi ci spostiamo a seguire Max, uno dei ragazzi del suo gruppo. Il ragazzo si sta per trasferire da Syrakuse, New York, in Arizona, dal padre, che vive momentaneamente in un motel. Qui conosce un altro ragazzo, Cody, che vive con una madre fuori di testa che fuma erba in casa assieme ad altri giovani. Intanto ci sono altri adolescenti, diversi attimi rubati e registrati, risistemati poi assieme dal suo autore.
Figure nel paesaggio o paesaggio con figure? Ovvero: fiction o documentario? Quale forma era meglio utilizzare per raccontare l’adolescenza di oggi in America? Sutton dice che nel film non ci sono momenti di intimità tra i personaggi perché sono troppo privati ed appartengono a loro stessi, e non ci sono videogiochi perché, tra una decina d’anni, ce ne saranno di nuovi: voleva che Pavilion, come ritratto della gioventù, resistesse il più a lungo possibile, nonostante la rapidità con cui cambiano le mode tra gli adolescenti. Insomma: opera una scelta ben precisa, che indica la presenza di un autore, anche se non si direbbe.
Meravigliosamente fotografato con luce naturale, e musicato nei momenti giusti con brani “emozionali” e delicati, Pavilion è cinema estremo all’ennesima potenza, che per qualcuno sarà più facile forse da ammirare che amare. Nel suo percorso – dopotutto piuttosto lineare -, e nel suo essere così profondamente anti-narrativo pur poggiandosi su una “storia”, Pavilion è un cinema che ha diritto di esistere: perché vuole mostrare più che dimostrare, e oggi pare un atto di coraggio.
Voto di Gabriele: 7
Pavilion (USA 2012, drammatico 72′) di Tim Sutton; con Max Schaffner, Zach Cali, Cody Hamric, Addie Bartlett, Aaron Buyea, Levi Dustin, Mary Waters, Bruce Schaffner.