Torino 2017, Morto Stalin, se ne fa un altro: recensione in anteprima
En ensemble notevole a servizio della brillante penna di Armando Iannucci per questa sarcastica e graffiante messa in scena della morte di Stalin
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Nel racconto Il pappagallo, Ennio Flaiano immagina il simpatico pennuto quale custode del segreto circa la morte di Iosif Stalin. Uno scenario grottesco a priori, immaginandoci il dittatore russo intrattenersi con la bestia nel suo bunker, unica creatura sulla faccia della Terra di cui oramai può fidarsi. Armando Iannucci non se la figura meno ingloriosa la fine di Stalin e nel suo ultimo film ci dà giù che è un piacere, quasi senza riguardo. Morto Stalin, se ne fa un altro (d’ora in avanti The Death of Stalin, titolo originale) è spietato, solo che somministra questa sua irriverenza nella maniera soave, quasi dolce del sarcasmo spinto, dell’humor senza compromessi.
L’ultimo lavoro di Iannucci è per certi versi meno efficace del suo penultimo, In the Loop, ma non per questo meno brillante: l’italo-scozzese sa scrivere e possiede una verve comica ed un’intelligenza non comune nell’escogitare le battute giuste, quelle che colpiscono là dove i suoi personaggi sono più vulnerabili. Sin da subito si cerca d’inquadrare il temutissimo tiranno. A Mosca si sta tenendo un concerto: qualche minuto prima della fine, Stalin contatta i responsabili chiedendo una registrazione su vinile; nulla da fare, nessuno ha registrato alcunché. Ecco allora il malcapitato a cui è stato affidato il compito prodigarsi nel far rientrare tutti, intimando ai collaboratori di recuperare gente per strada se necessario: il concerto si fa da capo.
L’attacco che porterà alla morte non è meno stupido: basta una risata, la stessa che seppellisce l’uomo che da anni guida e spadroneggia il Partito. Viene trovato il giorno dopo, disteso per terra e ricolmo del suo piscio, mentre i membri del Consiglio cominciano già a fare i loro calcoli. Iannucci lavora su questo segmento, ossia sui meccanismi innescati da una morte che cambia definitivamente il volto di un Paese, e con esso la Storia sua e del mondo intero. Molotov, Chruščëv, Malenkov e Berjia, che sono stati gli ultimi a vederlo vivo, accorrono manifestando un dolore di circostanza, sebbene due di loro stiano già tramando, non solo perché la sera prima costretti dal grande capo a vedere l’ennesimo western di cui non gliene fregava nulla.
Va detto che da qui in avanti i meccanismi diventano analoghi a quelli del giallo, ovvero… chi ammazzerà per la seconda volta Stalin imponendosi come suo successore? A prescindere dal fatto che si conoscano o meno i fatti, lo squilibrio tra la propensione alla commedia grottesca, per quanto nera, è talmente soverchiante che lo sviluppo in sé passa in secondo piano: troppo brillanti i botta e risposta tra i vari protagonisti, e troppo assurde certe situazioni nel loro umorismo nero. D’altronde Iannucci scherza su una pagina estremamente delicata, tutto sommato recente, foriera di sofferenze indicibili. E questo è un altro punto: fin dove è lecito spingersi? La comicità di The Death of Stalin, per quanto misurata, dal piglio tipicamente britannico, non risparmia niente e nessuno, mettendo lo spettatore nella non sempre comodissima condizione di chi spontaneamente ride o sorride, per poi un istante dopo magari farsi qualche scrupolo.
Ci troviamo nel reame della satira, altro argomento borderline, apparentemente accantonato, sebbene caldo lo fosse fino a pochissimo tempo fa, a seguito degli eventi di Charlie Hebdo. La domanda perciò è: quand’anche i personaggi che Iannucci argutamente motteggia fossero in larga parte spregevoli, è il caso di ridicolizzarli a quel modo? Non ci si fraintenda. Non sono dei buffoni: l’approccio a ciascuno di loro non si discosta affatto dal trattamento medio di un qualsiasi postmodernista di professione, per cui dissacrare non è un’opzione bensì un obbligo. E al di là della risposta che ciascuno di noi può dare a tal proposito (per quello che vale, chi scrive ritiene l’intera operazione, dal concepimento allo svolgimento, fino al risultato finale, più che accettabile), è innegabile che il problema si ponga.
Peraltro non tutto è così “a limite”, anzi, buona parte delle trovate sono pure simpatiche, come Chruščëv che alla notizia della morte s’infila il vestito sopra il pigiama, gli svariati giochi di parole, il racconto personale di Svetlana Stalin che ricorda il papà inseguire il figlio Vasily per tutta la stanza mentre quest’ultimo cavalca un maiale, i nomignoli che ciascuno dà agli altri (tipo Nikita Chruščëv: per gli amici Niky). Insomma, Iannucci integra spiritosamente certa verve britannica ad una storia profondamente estranea dal proprio mondo, e forse anche per questo The Death of Stalin è meno penetrante rispetto ad altri suoi lavori come il già citato In the Loop o la serie TV Veep. Nondimeno questa sua rivisitazione è briosa, incalzante, aggettivi che ben si addicono a quello che ancora una volta è il vero valore aggiunto con Iannucci, ossia i dialoghi.
Mantenendo l’unità di tempo, Iannucci segue l’azione praticamente nel suo naturale dipanarsi, consentendoci di accedere a tutte le fasi successive rispetto all’evento catalizzatore di tutto che è per l’appunto la morte di Stalin. Dapprima il terrore di sbagliare, di commettere il minimo errore che può costare la vita: eccoli lì infatti seguire scrupolosamente una prassi alla quale già hanno smesso di credere, o rispetto a cui, per meglio dire, possono finalmente manifestare insofferenza. La prima convocazione post-mortem racchiude un po’ il senso di tutto, a partire dalla logica del compromesso, impensabile fino a che Stalin era in vita; ora finalmente una sorta di democrazia comincia a farsi timidamente strada, a partire dal seppur piccolo contesto di un Consiglio composto da poche persone, che raggiungono l’unanimità su tutto in pratica assecondando i desideri di uno solo.
L’avida scalata al potere che s’innesca dà adito al resto, malgrado si sia talmente presi da questo generale clima graffiante che tale percorso finisce con l’interessarci fino a un certo punto. Per dire, non importa cosa farà il capo dell’Armata Rossa, Zhukov, finché sbeffeggia a quel modo il compagno Nikita nel momento più delicato di tutti. E giunge l’epilogo, in cui Iannucci mette da parte l’ironia e si concentra sulla brutalità di una macchina che continua a funzionare perfettamente nonostante l’attore principale sia venuto meno. Ed è evidente che qui Iannucci ha paura; paura che qualcosa del genere possa ripetersi, in modalità e forme diverse magari. Allora sì, se così fosse, a quel punto ci sarebbe davvero poco da scherzare.
[rating title=”Voto di Antonio” value=”7.5″ layout=”left”]
Morto Stalin, se ne fa un altro (The Death of Stalin, Regno Unito, 2017) di Armando Iannucci. Con Olga Kurylenko, Andrea Riseborough, Rupert Friend, Steve Buscemi, Jason Isaacs, Jeffrey Tambor, Jonathan Aris, Paddy Considine, Simon Russell Beale e Michael Palin.