Torino 2019, El Hoyo, recensione – dalla Spagna l’horror sulla scia di Cervantes
Tra critica e satira, cavalcando in pieno il genere, El Hoyo riprende la figura di Donchisciotte della Mancia e la riadatta in versione horror
Un distinto signore dall’aria severa si aggira per una cucina che sembra non finire mai; qui un cospicuo numero di cuochi sta preparando ogni sorta di prelibatezza, con una cura e un’attenzione da gran ristorante. Sono le prime immagini di El Hoyo, l’alieno del Concorso al Torino Film Festival di quest’anno; parabola concepita e strutturata secondo i canoni del fantastico, per cui nulla è reale ma non per questo vuol dire che sia falso. Anzi, nei casi migliori, l’assurdità di certi scenari può addirittura risultare più incisiva della piatta riproposizione di una realtà apparentemente non filtrata.
La scena successiva vede Goreng svegliarsi in una stanza che fa impressione; dalla parte opposta alla sua un coinquilino, Trimagasi. La particolarità sta in questo buco rettangolare al centro, attraverso il quale è possibile scorgere, sia in alto che in basso, un numero indefinito di piani. Una volta al giorno questo spazio viene provvisoriamente riempito da una tavola imbandita; ma non è tutto qui. Quel che si trova su questa tavola dipende dal piano in cui ci si trova: in sostanza, più in basso si sta, meno possibilità ci sono di poter trovare qualcosa da mangiare, dato che gli “abitanti” dei piani precedenti vanno ingozzandosi come maiali.
Nel 2008 Denis Villeneuve girò un cortometraggio intitolato Next Floor (lo trovate in rete), il quale, pur differendo nella premessa e nelle conclusioni, concettualmente si pone pressoché sullo medesimo livello. Un meccanismo che Goreng scopre un po’ per volta: a differenza di progetti simili, in cui di solito il mistero da svelare sta principalmente nel come ma soprattutto perché i protagonisti sono finiti lì. Goreng a questa sorta di esperimento si è prestato; certo, senza conoscere in cosa consistesse il tutto, quesito che di conseguenza, fino a un certo punto, si fa trainante. Senza dunque star lì ad illustrare le dinamiche che regolano tale contesto (in fondo, come appena evidenziato, parte dell’interesse sta proprio lì), ogni ospite della struttura può portare con sé un solo oggetto; e può essere qualsiasi cosa. Goreng porta con sé una copia del Donchisciotte di Cervantes, elemento che alla fine si scopre contemplare molto più di una mera citazione.
Quale infatti che sia il funzionamento di questo cervellotico grattacielo, il nuovo arrivato carica su di sé la missione di sconvolgerlo, ribaltandolo. Lo vediamo già nelle fattezze, che rimandano all’immaginario del maldestro cavaliere della Mancia: capello lungo, pizzo a punta, corporatura gracile. C’è perfino Sancho – quanto a Ronzinante, chi scrive ritiene vi sia anche lui, sotto forma di amico invisibile, su cui però non è opportuno dire altro. Di fatto El Hoyo potrebbe addirittura essere letto come una trasposizione molto libera del capolavoro di Cervantes, e chissà che il regista non abbia già avuto modo di fugare ogni dubbio a riguardo. Perché, davvero, sebbene la chiave sia di altro segno, il registro a vocazione horror, anche Goreng decide di cimentarsi in un’impresa evidentemente al di là della propria portata. Da notare che non si esce mai dalla struttura, essendo gli eventi per intero ambientati al suo interno; di cose nondimeno ne accadono, senza alcun timore nel servirsi di metafore più o meno immediate, rischio sublimato a priori dal genere, quel Fantastico mediante il quale si riesce a dare un senso e una dimensione a svariati passaggi, molti dei quali esasperati.
Non ti molla El Hoyo, non un attimo di stanca, sempre lì ad incalzarti con rimandi e scene che hanno pure del grottesco in alcuni casi. Con una lettura aggiunta ma forte, basti pensare al sistema di ridistribuzione che viene escogitato quale possibile soluzione; eppure questa traccia, tangibile, non fagocita mai del tutto il film, la sua verve di genere per così dire, evitando quindi di cadere in quella sorta di limbo letterario contrassegnato da citazioni più o meno soverchianti. Qui i rimandi si rivelano funzionali, utili a sorreggere la scatola nemmeno troppo elaborata in cui consiste il gioco innescato dall’incipit. Un’idea la cui integrazione è effettivamente corroborante, poiché, senza scadere in alcuna forma di seriosità solenne, El Hoyo riesce a restare credibile anche e soprattutto dove vuole indurci a riflettere.
Con in più anche una frase cult, quel «panna cotta è il messaggio» dinanzi al quale si sorride, utile a stemperare senza però immiserire il racconto con certa ironia becera, tipica di certo postmodernismo spinto al quale qualche sceneggiatore si dà senza discernimento. El Hoyo propone dunque una formula che funziona, presupponendo una certa propensione ad operazioni di questo tipo, ma che si pone in maniera più trasversale di quanto sia seppur legittimo supporre. E ci riesce soprattutto alla luce del suo essere sempre sul punto di deragliare, lì lì per schiantarsi da qualche parte. E si è portati costantemente a credere che quel momento sia dietro l’angolo, fino alla fine, quando si deve prendere atto che, anche in quei punti in cui si è rischiato il peggio, l’incidente, con discreta sorpresa, non si affatto verificato. Dopo Handia, i baschi confermano che con certe cose ci stanno sapendo fare.
[rating title=”Voto di Antonio” value=”8″ layout=”left”]
El Hoyo (Spagna, 2019) di Galder Gaztelu-Urrutia. Con Emilio Buale, Zorion Eguileor, Eric Goode, Alexandra Masangkay, Ivan Massagué ed Antonia San Juan. Concorso.