Torino 2019, quinto giorno, è giunta anche l’ora dei classici
Modesta la proposta in Concorso di questa giornata, ci si rifà coi classici, continuando a pescare da After Hours
E ci avviamo inesorabilmente alla fine: ancora due giorni pieni, più sabato, in cui magari proverò a recuperare qualcosina, se possibile. Come ho modo di illustrare a breve, in giornata sono persino riuscito a ritagliarmi uno spazio per due classici (sezione Si può fare!).
Ohong Village è l’unico film in Concorso visto. Due amici di un minuscolo villaggio cinese, che vive essenzialmente di pesca delle ostriche, ad un certo punto si separano: uno dei due si reca infatti a Taipei per cercare ciò che in quella minuscola comunità, rimasta ai margini su troppi fronti, è impossibile anche solo pensare. E la Cina di oggi, una crescita esponenziale, che per forza di cose ha lasciato fuori aree immense del Paese. Però questa ricchezza c’è, concentrata, spropositata; ed allora un giovane cosa può desiderare se non di agguantare la sua di parte? Il problema di Ohong Village sta essenzialmente nell’ingenuità con cui si affaccia sulla questione, l’approccio esageratamente didascalico che, al netto di qualche sequenza suggestiva rispetto a certi riti locali, non può aspirare a metterci a parte di chissà quale verità. Con una chiusa che, difatti, conferma in toto questo limite così marcato.
Grace Glowicki l’abbiamo già vista in RAF, diretta da un altro regista però. Tito non solo lo interpreta, ma lo dirige e lo scrive anche. E ammetto per certi versi di aver preferito il secondo al primo: qui la Glowicki si cimenta in una performance che fa tanta leva sull’uso del corpo, le espressioni facciali, cercando di descrivere con una prosa quasi sperimentale l’ansia e la paranoia del protagonista, che è un ragazzo. Con un lavoro sul sonoro notevole, lo si vive più come un’esperienza, dato che la missione pare proprio quella di restituirci ciò che sperimenta Tito, descriverci la sua condizione senza star lì a dissertare o drammatizzare più di tanto. Anche se un po’ acerbo, trovo sia un tentativo tutto sommato da premiare.
Prima di soffermarmi sull’ultimo film della giornata, qualche riga sui due classici di cui sopra. Il primo è stato Onibaba (1964) di Kaneto Shindo, su queste due donne randagie che vivono di riflesso i tumulti del Giappone feudale, alle prese con una sanguinosa guerra per il trono. Girato interamente in quello che sembra proprio essere un campo di grano, è arduo descrivere quanto la location incida a tutti i livelli: visuale, tematico, di tono, narrativo. Crudo e viscerale, merita di stare nel novero del meglio che il cinema giapponese abbia mai prodotto.
L’altro è The Innocents (1961), da noi conosciuto come Suspense. Uno di quegli esempi da manuale per cui vale la pena ricorrere all’espressione, inflazionata e perciò spesso usata a sproposito quanto si vuole, per cui «non li fanno più così». Dietro una cura formale tipica dei lavori che le major sfornavano all’epoca, impeccabile, si cela un racconto che anche così fa presa a tutt’oggi; gli innocenti di cui al titolo dei bambini affidati ad una governante (una splendida Deborah Kerr), la quale, suo malgrado, si ritrova a dover risolvere un mistero inquietante che li riguarda. Mi fa gioco citare questo film soprattutto in funzione di quello di cui discuto nel capoverso successivo, visto subito dopo; di fatto un involontario ancorché centratissimo double bill mica da ridere.
The Lodge è il secondo film che Severin Fiala e Veronika Franz co-dirigono insieme dopo Goodnight Mommy. E siamo di nuovo lì, all’interno di una famiglia travolta da un incidente, in cui due figli, incolpevoli, subiscono una situazione pesante. Morta la madre, il padre può procedere ad attuare una decisione che aveva già preso prima del tragico evento, ossia sposare Grace. Per far sì che quest’ultima prenda confidenza coi piccoli, il padre decide di lasciare tutti per qualche giorno in questa casa di montagna, in mezzo al nulla coperto di neve. E vecchi fantasmi del passato di Grace, stimolati dai ragazzini, tornano a manifestarsi. Che una trama del genere si leghi con certo rigore austriaco (ricordo che la Franz è stata a lungo assistente alla regia di Ulrich Seidl, ed anche stavolta si vede) è chiaro. Ed infatti in alcuni punti The Lodge colpisce. Senonché qualcosa cede nel meccanismo che prevede un doppio ribaltamento, struttura che comporta dei rischi evidenti, gestiti non alla perfezione. Detto ciò, stupenda la fotografia di Thimios Bakatakis, DoP di Yorgos Lanthimos.