Torino 2019, primo giorno, il Concorso parte in sordina
Torino Film Festival 2019: si comincia, ed è una partenza piuttosto soft
Nella piovosa Torino, non risparmiata dal maltempo che a quanto pare sta tormentando mezza Penisola, anche per noi ha ufficialmente inizio l’edizione numero 37 del Festival. Giornata intensa (meglio approfittarne ora che si è all’inizio) con quattro film, equamente spartiti tra Concorso e Festa Mobile. Prima di soffermarci su un seppur breve commento ciascuno, mi pare opportuno fornire qualche coordinata sul modus operandi: nei prossimi giorni, fino a sabato prossimo, cercheremo di offrirvi una panoramica quanto più completa secondo una formula che negli ultimi anni avevamo accantonato, ossia quella del diario giornaliero. Un modo per fare un po’ il punto sulla situazione, lasciandovi vivere insieme a noi le nostre giornate, cercando di spremere il più possibile e restituirvelo quanto più integro.
Chiariti i dubbi di procedura, passiamo ai film. Primo, in ordine di tempo, Le rêve de Noura, della tunisina Hinde Boujemaa. Il marito di Noura, Jamel, esce inaspettatamente dal carcere, trovando però la moglie invischiata in una relazione con un altro uomo, Lassad, col quale vorrebbe andare a vivere. Un affacciarsi su una società chiaramente regolata da dinamiche che l’occidentale non può che aborrire, con quella denuncia di maschilismo nemmeno troppo velata sullo sfondo; Jamel vede Noura come una propria pertinenza, esercitando questo presunto diritto con una violenza animalesca. Ad un certo punto pure con la complicità di un contesto che lo incoraggia, quando persino un ispettore di polizia gli dà ragione («fossi stato al posto tuo l’avrei ammazzato»). Con una certa semplicità e compostezza la Boujemaa tratteggia la condizione di questa donna senza appunto urlare, incalzando lo spettatore con passaggi estremi ed esasperati, a parte una scena un po’ più forte, giustamente lasciata fuori campo. Senza tuttavia tacere in merito a quanto di bello c’è in un’esistenza come questa, l’amore per e dei figli, per esempio, il cui rapporto rappresenta la nota forse più corroborante, intrisa di una dolcezza tutta femminile. Tanto che non è assurdo pensare ad una chiusa speranzosa, sulla quale però il film non si sbilancia, lasciando le sorti di Noura totalmente in mano allo spettatore.
Ms. White Light è il film che piace al pubblico, perché fa riflettere ma al contempo evita di prendersi troppo sul serio, stemperando a più riprese la gravità dello scenario con un piglio da commedia. Ho comunque delle riserve su questo ritratto di una ragazza alle prese col proprio dono, ossia quello di accompagnare chi si appresta a morire fino al definitivo trapasso, al posto dei loro cari. Parte come il tipico film sulla malattia terminale, non un vero e proprio cancer movie ma qualcosa del genere, salvo poi aprirsi mostrando una travagliata elaborazione del lutto. Leitmotiv è comunque la paura della morte, rispetto alla quale in Ms. White Light ci si dice sostanzialmente disarmati, inermi, perciò non resta che vivere a pieno quanto ci è dato da vivere. Troppo poco e, francamente, anche troppo semplice. Chiaro che la materia è ostica, ma va detto che quest’approccio così fintamente svagato, verrebbe da dire quasi da Sundance, specie se applicato a temi così delicati e complessi, ha esaurito la propria funzione, ammesso che ne abbia mai avuto una. La protagonista, Lex, è brillante, capace, intelligente, tanto che a un certo punto muta in una sorta di detective delle paure altrui, verso cui mostra un’ossessione quasi feticistica; ma i vari avvicendamenti, taluni dialoghi che vorrebbero farsi beffe di una certa etichetta, tabù che non sono più tali (tutte cose che hanno a che vedere con la relazione col malato), sono alcuni dei limiti di un film dalle buone intenzioni ma non molto altro.
L’inganno perfetto è il solito Bill London, pulito e innocuo, con in più due personaggi che forse funzionano su carta (il film è tratto da un romanzo), ma a fronte della cui trasposizione vanno via via sgretolandosi fino a non restarne più niente. Alla base vi è evidentemente un mistero da svelare, ed è sintomatico che, nel momento in cui la verità emerge, il nostro interesse è già venuto meno. Da un lato perciò vi sono le responsabilità di Condon, che eppure confeziona una prima parte che procede senza intoppi, con criterio, malgrado, e qui emerge una seconda nota dolente, sia sorprendente constatare quanto poco affiatamento si percepisca tra Ian McKellen ed Helen Mirren. Hai i suoi momenti, che si fa nondimeno presto a dimenticare.
Per chiudere c’è il film che ho apprezzato di più oggi. Beats non propone nulla di così stravolgente, anzi, Brian Welsh ripara forse anche troppo sul sicuro. Ma è una storia che funziona e coinvolge quella di questi due adolescenti scozzesi, Johnno e Spanner, che, nel 1994, a fronte di una Legge britannica che sostanzialmente vieta i rave, s’impegnano in ogni modo a portare a termine ugualmente questa tappa, quasi una sorta d’iniziazione alla vita. Il rapporto tra i due è centrale, e dalle differenze di classe Welsh tenta persino di fare emergere qualcosina rispetto al quadro sociale dell’epoca, per lo più nell’ottica di dimostrare cosa possa significare il prendere parte ad un’esperienza collettiva del genere, il livellamento che insomma porta in dote. In nessuna di queste cose eccelle, né tenta di farlo, ma si salta in qualche modo per la musica e ci si stringe almeno un po’ attorno a questi strambi ancorché teneri protagonisti.