Torino 2020, Camp de Maci, recensione del film di Eugen Jebeleanu
Il travagliato processo di autoconsapevolezza di un giovane omosessuale in tempo reale, Camp de Maci è espressione di una regia e una scrittura magistrali
Cristi parcheggia l’auto nell’unico posto disponibile sotto casa; è stata una vicina a concederglielo, dato che la persona che lo occupa di solito al momento è fuori città. Con Cristi c’è Hadi, appena sbarcato in Romania, lui francese che fa lo stewart per una compagnia aerea. Di lì a poco si scopre che i due hanno una relazione: li vediamo quasi avvinghiarsi nell’ascensore, tanto è il desiderio. Nella scena successiva Cristi è sì presente, ma un po’ più distante, come se la magia stesse svanendo; Hadi gli chiede se gli piacerebbe passare il fine settimana insieme da qualche parte, ma Cristi è titubante. Finché alla porta non si presenta la sorella, ed allora la ritrosia del protagonista assume consistenza.
Camp de Maci è un film al quale è difficile muovere critiche negative, il migliore fin qui nell’edizione 2020 del Torino Film Festival: misurato, preciso, scritto benissimo. Ce lo si beve come niente, e questo è dovuto solo in minima parte ai suoi 81 minuti di durata. È che praticamente c’è poco o nulla fuori posto, incalzante quando deve esserlo, più ripiegato quando è opportuno che lo sia. Limitatamente a quest’ultima fattispecie, vale la pena puntare il dito su un’inquadratura fissa che si porta via svariati minuti, un primo piano molto stretto di Cristi e un suo collega, quest’ultimo intento a raccontare una vicenda accadutagli qualche sera prima: si è rapiti da questo racconto, quasi come se lo stessimo vedendo, eppure sono solo due amici che stanno discutendo, in un momento in cui un episodio del genere ci sta eccome.
Eugen Jebeleanu indovina i tempi, non commette sbavature, e ci consegna un ritratto agile ma al contempo efficace sulla difficoltà di un uomo posto dinanzi a un bivio esistenziale. Difficile dare contezza della complessità delle logiche evocate in tutto sommato poche scene: non la mera rivendicazione, il partire dal presupposto che vi sia una strada palesemente giusta ed un’altra altrettanto palesemente sbagliata. Il regista rumeno oppone infatti due schieramenti, macchiettizzando un po’ troppo uno dei due effettivamente, ossia gli ortodossi, rientranti nella schiera degli omofobi, da un lato, mentre dall’altro non ci sono dei militanti, bensì gente ordinaria che la pensa in maniera diametralmente opposta.
Se stessimo alle categorizzazioni, come appena accennato, rischieremmo di perderci ciò che più conta, ossia tutto il resto. Lo scenario è quello di un cinema dove questo gruppo di persone, cartelli e icone alla mano, vuole impedire la proiezione di un film a tematica LGBT. La polizia viene perciò chiamata ad intervenire, e si dà il caso che nella squadra d’intervento vi sia proprio Cristi. Da qui alla fine viene rispettata l’unità di tempo, per cui questa lunga fase, centrale, abbiamo modo di viverla a stretto contatto col protagonista, venendo a nostra volta travolti dalla sua ansia, la sua rabbia, le sue paure.
Ci sono primi piani che dicono molto più di mille discorsi, il volto disorientato di Cristi o quello dubbioso, a tratti spaventoso, dei suoi colleghi. Il problema è che un ragazzo del pubblico riconosce Cristi, il quale, per scrollarselo di dosso, data l’insistenza, gli carica un pugno in piena faccia. È il punto di non ritorno; da lì s’innesca la definitiva frattura, l’inizio della fine del doloroso processo che il giovane poliziotto sta sperimentando da chissà quanto. Di solito certi percorsi ci vengono presentati in maniera molto più diluita, persino schematica, anche a livello temporale, mentre in Camp de Maci si tratta di una mezz’ora o poco più, durante la quale di parla di tutt’altro invece che dell’argomento che aleggia, anzi, spinge, e prepotentemente per giunta.
Eppure è proprio un simile trattamento a conferire una tale forza al discorso: questo girarci attorno senza allontanarsene per un istante, toccando i tasti giusti mediante dinamiche apparentemente avulse, in questo caso la gestione di una situazione complicata, qual è quella che si è venuta a creare in questo cinema. Si potrebbe persino approntare un ragionamento sulla scelta della sala cinematografica quale luogo privilegiato entro il quale maturare, attraverso cui passare allo step successivo, ma credo si finirebbe al contempo per fuorviare, lasciando suppore che Camp de Maci sia uno di quei film che operano per metafore, ermetici addirittura.
Niente di più sbagliato. Al contrario, quello di Jabeleanu è un pezzo di bravura espressione dell’approccio magistrale di un regista che, per concepirlo e poi dargli forma, è rimasto parecchio coi piedi per terra. Quanti rischi si corrono lavorando sul non detto, ottenendo non di rado l’esatto contrario di ciò a cui si aspirava da principio. Non in Camp de Maci, in cui tale “non detto” rappresenta il motore, alimentato da un’attenzione scrupolosa nel cogliere quei pochi ma fondamentali elementi e sottoporceli con cura, con quella macchina a mano una volta tanto usata con criterio, pronta a soffermarsi sull’elemento giusto in ogni singola scena.