Torna il cinema delle canzoni di Cesare Andrea Bixio
Il successo oggi di un vero capolavoro del 1942 può rilanciare una nuova stagione di grandi ritorni? Ad esempio, cosa vi dice “Parlami d’amore Mariù”?
Nelle sale in alcune città italiane è ricomparso Vogliamo vivere di Ernst Lubitsch, del 1942, titolo originale To be or non to be. Racconta una storia ambientata nella Varsavia occupata dai nazisti, i quali censurano la commedia “Gestapo” (nome della polizia nazista) ma gli attori della compagnia che stavano allestendo lo spettacolo, pur di andare in scena, decidono di proporre una particolare versione semicomica dell’”Amleto”, un classico che viene usato come la parola d’ordine per i partigiani polacchi, in tempi di violente persecuzioni antiebraiche. La ripresa del film, inaspettata, sta avendo successo, e non è detto che altre iniziative simili non si possano ripetere.
Lubitsch era un grande regista, dal tocco magico. Il ritorno della sua opera conferma che la leggenda del cinema, a cui sono affezionati non solo i cinefili, ha un pubblico che può diventare ancora più vasto: il catalogo dei capolavori del passato è una immensa cassaforte, basta saper scegliere. Si può essere certi che le scelte ben fatte conquisteranno anche i più giovani, in tempi di stanca del cinema, non solo italiano.
Ad esempio, ricorre il nome di Cesare Andrea Bixio. Chi era? Era l’autore delle canzoni e delle colonne sonore delle commedie di maggior successo del cinema fra l’inizio del sonoro (1928) e il cinema degli anni Settanta (morì nel 1978). Quest’anno parenti e amici hanno deciso di ricordarlo con una mostra che prende spunto dalla canzone sua più famosa Parlami d’amore Mariù cantata da Vittorio De Sica in una delle brillanti opere di Mario Camerini e dello stesso De Sica: Gli uomini che mascalzoni (1932). Bixio era già molto famoso per avere composto partiture per “La canzone dell’amore”, “Silenzio si gira”, “Chi è senza peccato”, “Melodramma”, “Vivere”. Era un autore capace di intendersi con i registi e di scrivere cose indimenticabili, creando una società, una casa di produzione che continua. Dopo la scomparsa del figlio Cesare, il produttore dei “Cesaroni” per la tv e di tanti altre fiction di successo, il fratello Franco ha preso in mano la situazione e ha varato la mostra. Con un seguito di atti e proposte, non escluso il ritorno di film come remake o come restauri pregiati.
A cosa si deve la resistenza di Bixio padre e di una canzone come la deliziosa “Parlami d’amore Mariù”? Lo si deve alla potenza del fascino dolce e malinconica dei versi, della musica e della interpretazione di De Sica, copiata in tutto il mondo, una grande eredità anche storica. Vediamo come. Storie personali che si iscrivono a storie più grandi.
Anni Cinquanta. Non era così tutte le mattine quando, col volto sfigurato dalla fatica che attendeva, si metteva davanti allo specchio per il rito quotidiano della barba. Ma nei giorni buoni, nei giorni di festa, il volto si spiegava come una bandiera, gli occhi luccicavano, le dita andavano spedite sul pennello e sulla lametta di un goffo rasoio. Lui, mio padre Alceste, cominciava a cantare, da napoletano a Milano, sulla lunga scia che verso la nebbia portò Peppino e Totò nella capitale del Nord, meta di emigrati giovani giovani, in piena estate, balbettando nous voulons savoir al ghisa in piazza Duomo. Lo specchio palpitava particolarmente nei giorni del bagno della settimana e del vestito buono, sulla pelle stretta dalla tuta da operai. Dalla finestra, anche se era inverno, entrava primavera così, di mezza mattina: Come sei bella più bella stasera Mariù! Splende un sorriso di stella negli occhi blu. Anche se avverso il destino domani sarà, oggi ti sono vicino, perché sospirar? Non pensar…”
A questo punto con la primavera, entrava mia madre che non aveva gli occhi blu ma era bella lo stesso. E il canarino mio padre sussurrava: Parlami d’amore Mariù, tutta la mia sei tu. Ed erano felici , con poco. Certo, i miei genitori avevano visto il film di Mario Camerini, “Gli uomini che mascalzoni”, ricordavano sequenza per sequenza, parole e musica, la musica del grande Cesare Andrea Bixio e di Ennio Neri, pezzo forte della colonna sonora di un amore inquieto e sereno, tra il sottile giunco Vittorio De Sica e la biondina madamina Assia Noris, una straniera assimilata, dal viso acqua e sapone solcato da lunghe ciglia a ventaglio, bocca rassettata con cura.
Ho pensato più volte a quella scena della domenica, alle paste che arrivavano in tavola dopo il risotto e luganega, carboidrati e unica carne della settimana; alla uscita per piazza Duomo, al prato della nostra via Gluck (ma non era quella di Celentano); a Meazza, il calciatore dal petto possente, come diceva mio padre che tifava Inter. Io, invece, Milan. Ho pensato soprattutto allo specchio quadrato in mezzo a un mobiletto sciancato. Lo specchio era fedele. Specchiava ogni mattina il sentimento, l’umore dopo una notte forse di sonno, forse di ansie che i genitori tenevano riservate, un vero tabù, silenzi per me e i tre fratelli accalcati in un’unica stanza grande come un circo per le invenzioni delle nostre fantasie: il salto senza rete dai letti a castello. Ma lo specchio andava oltre, aveva una magia.
Nella festa, lo specchio quadrato metteva la sua luce migliore, e guardava fisso chi osservava la speciale alba che fabbricava; pareva un riflettore che si arroventava di blu quando la canzone dedicata a Elena, il nome di mia madre diventava in quella luce incantata, Mariù: So che una bella e maliarda sei tu, so che si perde chi guarda negli occhi tuoi blu. Ma che m’importa se il mondo si burla di me. Meglio nel gorgo profondo ma sempre con te. Sì con te.
Sono passati anni e anni da allora. La donna italiana del secolo scorso se n’è andata, prima che lo stanco Novecento finisse; e al suo posto vertiginosamente sono arrivate nelle grandi città milioni di donne dalle campagne, dalle fabbriche, dai paesi del mare e delle montagne, dalle periferie altre donne. Operaie, impiegate, servette, modiste, parrucchiere, miss, modelle, ragazze “Grandi firme” (titolo di una rivista famosa), decise, coraggiose:montate su scarpe da zeppe vistose, gambe favolose sotto svolazzanti gonne, seni traboccanti in strette camicette, teste fasciate in alati cappelli di paglia o un colorati fazzoletti da cui scappavano ricci ossigenati o neri o castani, ricci da capricci. Forse c’erano, ma dov’erano?, le casalinghe, poco disperate, se non per le facili liti con le suocere che tutelavano i loro maschi gloriosi usciti di casa e diventati mariti; mariti che in massa frequentavano ancora le case chiuse (fino al 1958), la prima “scuola dell’obbligo” del sesso, per molti, anche per Indro Montanelli e la rimpianta “ Addio Wanda”, libro di memorie non più segrete.
Eppure, mai interrotta dalla guerra e dal dopoguerra, e anche fino a oltre i primi anni Sessanta (il tempo dello specchio di mio padre e di Elena-Mariù), la canzone di Bixio è rimasta nell’aria, non solo nel cuore e nella testa. Eppure, la canzone parlava di gorgo profondo, avverso destino, mondo che si burla di me, sospirar.. C’era una parola, una sola parola che risolveva ogni dubbio, possedeva un tenace barlume di speranza. Anzi , erano poche, piccole parole: dimmi che illusione non è. L’amore era questo, il salto oltre l’illusione, la certezza bambina di uomini giovani maturi verso una fiducia con qualche dubbio struggente, verso la donna-felicità:… tutta la mia vita sei tu. Gli occhi tuoi belli brillano, come due stelle scintillano. Da quella lontana epoca, un ampio salto al presente. Alla pagina di una rivista, a un titolo: “Mariù, venticinquenne, fuggita dal cinema”. Il nome magico scivolato dalla canzone cantata da Vittorio De Sica è stato dato alla nipote Mariù, figlia di Christian e di Silvia Verdone. Ecco come una semplice canzone può segnare una persona, una vita, un destino,un condominio di affetti: meglio nel gorgo profondo ma sempre con te, sì con te. Nel nome fatale di nonno Vittorio. La canzone vince ancora nel gorgo del mondo. Parlami di specchi, Mariù.