Cannes 2021, Tre piani, recensione del film di Nanni Moretti
A cinque anni da Mia madre, Moretti torna a Cannes con Tre piani, il suo primo adattamento cinematografico, dramma corale atipico per il regista romano
In Tre piani, ultimo lavoro di Nanni Moretti, Monica (Alba Rohrwacher) esce di fretta e furia dal portone con dei dolori all’altezza dello stomaco (è incinta). Cerca un taxi che non arriva, in compenso però Andrea (Alessandro Sperduti), figlio dei giudici Dora (Margherita Buy) e Vittorio (Nanni Moretti), sfreccia a velocità talmente elevata che mette sotto un’altra donna, per poi finire dentro la casa di Lucio (Riccardo Scamarcio). Quest’ultimo ha una figlia, che una sera scompare insieme all’anziano Renato: pare non sia accaduto nulla, solo che il vecchietto non è granché lucido e si è dimenticato la strada del ritorno. Lucio non lo accetta, sia perché ad avere affidato la piccola a Renato è stato proprio lui a causa della lezione di spinning, sia per gli atteggiamenti equivoci precedentemente manifestati da Renato, che la figlia aveva precedente definito «guasto».
Primo soggetto non originale per Moretti, che si cimenta in via del tutto inedita nell’adattamento del libro omonimo, scritto da Eshkol Nevo. Sarà probabilmente questa la ragione per cui del regista qui non si scorge poco o nulla. Anzi, verrebbe addirittura da dire che Tre piani sia inspiegabile nella sua filmografia: piatto, banale, privo di verve. Un condominio dove ne accadono di ogni, tra presunte violenze su minori, madri sull’orlo dell’esaurimento nervoso, figli in rotta con genitori benestanti e ossessivi; c’è tutto o quasi il coté del dramma italiano in forma di sceneggiato televisivo.
Un film diviso in tre parti, la seconda a cinque anni di distanza dalla prima, la terza dopo dieci. Già qui si rimane perplessi: a parte le bambine più piccole, com’è possibile che dopo un decennio quasi tutti non siano cambiati nel loro aspetto di una virgola? Si tratta di un’approssimazione che rivediamo purtroppo senza particolare fatica pure in altre componenti. È vero che, a fronte di un personaggio scritto male, anche il migliore degli interpreti può fare poco; ma è comunque impossibile fare a meno di constatare quanto buona parte del recitato sia posticcio, a volte inutilmente sopra le righe, difetto che deriva dritto dritto da dei dialoghi raffazzonati. Passaggio del tempo quindi non segnato nemmeno da chissà quale cambiamento, se non nel finale (lieto), mentre in corso d’opera il tutto potrebbe persino dare l’impressione di essersi svolto in tre giorni, a tal punto le ripercussioni, di per sé notevoli, incidono su come si manifestano nelle spente reazioni di ciascuno dei protagonisti.
Quando Vittorio deve allontanare il figlio, scena cui tocca darci contezza dell’intransigenza di questo padre ingessato, più giusto che comprensivo, il nostro si limita laconicamente con dicendo all’incirca: «è giusto così, eri ubriaco e per questo hai ucciso una donna, quindi devi essere processato e scontare la tua pena in carcere». Senza star lì però a fare le pulci alle singole linee di dialogo, di questa tendenza ne soffrono tutti. La parabola di Lucio registra uno sbalzo estemporaneo con la comparsa di Charlotte (Denise Tantucci), svolta gettata lì nella mischia, con un’asprezza che rende il tutto ancora più squallido nonché maldestro.
Che Moretti non sia un esteta è cosa nota, ma che ripieghi su un format così vetusto e alieno dal proprio elemento lascia francamente interdetti. In alcuni frangenti ci si sente davvero su un universo parallelo, da cui si viene ogni tanto richiamati dalla più familiare colonna sonora di Franco Piersanti, elemento aggiunto e mai davvero integrato al tutto, ancorché piacevole. Quest’uso delle ellissi così incerto, poi, non fa che pesare ulteriormente, impedendoci di entrare a pieno nelle vicende di personaggi investiti da accadimenti che ne hanno sconvolto l’esistenza.
Su tutti, mi pare sia indicativo l’arco di Monica. L’aggravarsi della sua condizione d’instabilità mentale, dovuta in parte alla contingenza di un marito assente e, ci viene suggerito, in parte dall’influenza di una madre che soffre di manie di persecuzione, è emblema di un mancato controllo su tutta la linea. Si tratta dell’unico personaggio che consente di derogare dall’austero realismo di base in Tre piani, vuoi per le visioni, per i sogni, tutte fattispecie ambigue. Qualcosa non funziona tuttavia, nonostante il dolce spaesamento della Rohrwacher, che non può certo ribaltare l’asfittica costruzione delle sue scene.
L’accumularsi dunque di registri, tanti quanti sono i personaggi, anche se coinvolti nella medesima vicenda, rappresenta un ulteriore macigno da cui il film ne esce soverchiato. Nel loro alternarsi troppo si perde di significativo, ed il non aver individuato delle misure adeguate per farci stare tutto dentro, aggirando certa linearità in maniera più accattivante, costituisce un ostacolo pressoché insormontabile. Un’affannosa ricerca di redenzione, percorso segnato dal dolore e dai sensi di colpa; il tutto vanificato da una messa in scena che s’affida troppo al testo, quando invece sugli spunti di rilievo, che ci sono, andavano operati accorgimenti di ben altro spessore.
Tre piani (Italia, 2021) di Nanni Moretti. Con Riccardo Scamarcio, Margherita Buy, Alba Rohrwacher, Anna Bonaiuto, Denise Tantucci, Nanni Moretti, Alessandro Sperduti, Paolo Graziosi, Stefano Dionisi, Adriano Giannini, Tommaso Ragno e Elena Lietti. Nelle nostre sale da giovedì 23 settembre 2021. In concorso.