Tremate, tremate le streghe son tornate…
…e con loro torna anche Rob Zombie, cantore del White Trash e autore ormai imprescindibile del panorama horror moderno
Si scrive White Trash, si legge Rob Zombie. E’ il mondo dei bianchi, di quelli sporchi e dimenticati, la faccia povera, rozza e moralmente riprovevole dell’America, non a caso esiliata nel meno elegante dei suoi orifizi, quella provincia che fa un po’ da metaforica discarica politica del paese delle opportunità. Questo è il mondo che Zombie ha scelto di mettere in scena, il solo a cui il rocker di Haverhill ha deciso di prestare la voce distorta di una chitarra, ma anche quello in cui in cui il suo metal e il suo cinema si incontrano -e si accordano- perfettamente.
Un mondo di reietti (del diavolo of course) che, dopo aver fatto sentire la sua voce sia cinematograficamente che politicamente nei gloriosi anni ’70 grazie a titoli-detonatori come Non aprite quella porta e Le colline hanno gli occhi, è stato lentamente risucchiato suo malgrado dentro le secche del new horror, questo sì autentico serial killer di miti fondativi di un immaginario (Leatherface, Jason, Freddy…devo continuare?).
Ci voleva un artista rubato alla musica per riportare l’horror, o quantomeno la sua essenza visiva, alla sua primigenia coerenza. Certo quello di Rob non è (non ancora?) il grande cinema politico degli anni ’70 ma ciò non toglie che la filmografia da lui consegnata fino ad oggi trasudi un amore autentico per quel genere e una devozione onesta nei confronti dei suoi “padri fondatori”, ben lontana dagli esercizi stilistici – leggi videoclip- di giovani e disinvolte marchette di primo pelo.
Se l’horror americano contemporaneo appare dunque, salvo sporadiche eccezioni, custode del più bieco conservatorismo visivo e morale figlio della logica dei multiplex, il cinema di Zombie, imperfetto, violento e compiaciuto, ha dalla sua di essere emanazione (ed amplificazione) di ossessioni sincere. Zombie ama davvero i suoi reietti bianchi, sporchi e cattivi e li ama a tal punto da dedicare loro il suo esordio in sala, quella Casa dei 1000 corpi nella quale, prima che gli sventurati avventori, ad essere fatto a brandelli e restituito a gustosi e surreali tocchetti è il cinema stesso.
Il film, è il suo primo, esce nel 2003, cioè l’anno stesso del remake ufficiale di “Non aprite quella porta”, quello, per intenderci, che ha avuto il (solo?) merito di averci fatto scoprire le grazie di Jessica Biel. Anche qui famigerate famiglie disfunzionali si contendevano il centro della storia mentre un innominabile macellaio irrompeva sulla scena per far piazza pulita di tutto e tutti (Leatherface nell’ovvio remake e un folle Dottor Satan dall’altra parte); occorre ancora sottolineare quale fra le due pellicole rappresenti il vero rifacimento del cult del ’74? Ma andiamo oltre.
Incassata l’adorazione dei fan, l’interesse dei critici e il disgusto dei benpensanti Zombie non si ferma qui e così, dopo La casa dei mille corpi, infila un sequel che pare la controparte amorale, alcolica e nostalgicamente western di quell’incubo allucinogeno e sanguinolento. In Italia i soliti scellerati lo intitolano La casa del diavolo dimenticandosi tuttavia che questi reietti in realtà non li vuole neanche l’inferno. Il film, manco a dirlo, è girato da Dio (o dal Diavolo, fate voi) e inciampa solo nella sua stessa generosità (citazioni musicali, estetiche e cinematografiche ovunque) e se non ci si vergogna a parteggiare un po’ per queste carogne logorroiche, seduttive e assassine lo si deve solo alla grandissima mano del regista, capace di trasfigurare anche il più bieco di questi “dentisporchi” in figure che danzano libere e leggere sull’orizzonte del mito (“free as a bird” proprio come la canzone dei Lynyrd Skynyrd).
Acquisito quindi lo status di autore (con la moglie Sheri Moon assurta al rango di sua personale Giulietta Masina) Zombie si dedica al dittico che riesce a sdoganarlo presso il grande pubblico se non altro per l’epocale franchise scomodato. Halloween (semplicemente, perché “the beginning”, benchè azzeccato, è sottotitolo nostro) è un omaggio, ossequioso ma non asservito, a John Carpenter nonché un intelligente esempio di rifacimento che riesce nell’impresa di convivere dignitosamente accanto al trentennale capolavoro senza offenderlo o oscurarlo. Di quest’ultimo, molto saggiamente, il regista non mira a proporre l’irripetibile dimensione metafisica ma si limita a saccheggiare piuttosto lo schema d’azione (pur con qualche variante sul body count) ampliando inoltre, e qui sta la novità, le suggestioni dell’inesplorato prologo con l’omicidio da parte del bimbetto mascherato.
“Nella mente di Michael Myers” alberga, secondo la visione di Zombie, la rabbia dei diseredati, il white trash dei sentimenti e il sozzume nascosto; tutti ingredienti indispensabili per il corretto alimentarsi di una nevrosi omicida. L’intuizione di Zombie sta essenzialmente nell’aver fatto scaturire il marcio non più dal puzzo delle cascine di provincia ma dall’apparente perbenismo delle villette americane e dall’ipocrisia delle stesse istituzioni (come le case correzionali, e chi ha visto l’edizione uncut sa di cosa parlo).
E così, senza scomodare ombre o notti “della strega”, e anche col rischio di sottrarre all’icona Michael Myers parte del suo fascino demoniaco, Zombie costruisce un prequel-remake di indubbio fascino, discontinuo magari ma del tutto personale e ancora avvincente, destinato appena due anni dopo a completarsi con il suo secondo capitolo, naturale prosecuzione della mattanza che segnava la seconda e più ovvia metà di the beginning.
Poco amato dalla critica e dal pubblico, il secondo Halloween (che in ogni caso resta horror di parecchie spanne sopra altre pellicole coeve) segna un passo in avanti nell’esplorazione estetica fin qui condotta da Zombie ed è anche la pellicola che inizia a far mutare la percezione dell’autore, dividendo in maniera più secca gli adoratori dai detrattori. E se Myers diventa sempre più proiezione inconscia di una rabbia incontrollata piuttosto che di un male ultraterreno (e infatti il film è violentissimo), nel regista cresce sempre più la voglia di fare meno exploitation e più sperimentazione, come testimonia l’ultima e più attuale produzione. Del resto l’onirismo che permea l’intero capitolo due del dittico di Halloween non è che il banco di prova, o il ponte se si vuole, che conduce direttamente dentro la ricerca visiva più spinta ed estrema, proprio quella di cui Le streghe di Salem sembra voler diventare un audace manifesto per gli anni a venire.
Si parla di Ken Russel e Stanley Kubrick, Jodorowsy e Bava, e perfino di David LaChappelle per sintetizzare le mille suggestioni che un trailer (splendido) va disseminando da mesi in rete con la complicità del Requiem di Mozart sullo sfondo. Zombie, da buon nativo del Massachussets racconta la sua versione dei massacri delle presunte streghe di Salem ma, ci si chiede, abbandonerà il suo cantico sul white trash in favore di qualcos’altro?
Forse sì ma è pur vero che le ossessioni con cui alimenta questa storia di sabba, possessioni e avvento di anti-papi sembrano essere ancora quelle di un rocker (la maledizione contenuta nel vinile che richiama le migliori leggende musicali), innamorato della propria musa (Sheri Moon come corpo totale su cui inscrivere ogni segno possibile) e in rapporto costante con lo sporco e il rimosso dell’America dei bianchi (non a caso le streghe).
Blasfemo, iconoclasta o violento, poco ci importa se il film di Zombie andrà giù duro davvero, se la sua annunciata empietà lo renderà un nuovo “I Diavoli” per le generazioni future o se dietro l’audacia delle sue visioni si nasconderanno altre, più o meno contorte, letture. Per noi “The Lords of Salem” rappresenta l’evoluzione naturale di un autore che non cerca facili soluzioni per piacere al suo stesso pubblico e che, pertanto, è da difendere a tutti i costi. Del resto il suo sguardo, innegabilmente potente, è anche uno dei pochi che possa ambire oggi a profanare la sola “spazzatura bianca” esistente, quella di un immaginario horror incessantemente narcotizzato. Sol per questo varrebbe la pena di affermare, al di là di ogni blasfemia, “Che Dio abbia in gloria questo (buon) reietto del diavolo!”