Un ragazzo d’oro: Recensione in Anteprima
Pupi Avati torna al cinema con Un ragazzo d’oro, storia di un figlio e del suo disinteressato, profondo amore per il padre. Traccia totalmente vanificata da un discorso condotto in maniera oltremodo approssimativa
Davide Bias (Riccardo Scamarcio) è un aspirante scrittore che lavora presso un’agenzia pubblicitaria. Dopo l’ennesimo diniego da parte di una casa editrice, decide che è tempo di lasciar perdere questa sua ambizione, sebbene l’ultima delle case a cui si rivolge sembra sincera nel fargli notare di avere talento. Nulla da fare, Davide incassa molto male il colpo e decide che probabilmente la narrativa è solo un sogno inarrivabile.
Tuttavia la storia del ragazzo è tutt’altro che semplice. Figlio di un cineasta che ha sfornato per lo più filmacci tra gli anni ’70 e ’80, Davide avverte ancora tutto il peso di un padre che lo ha sempre fatto valere meno di una lira, atteggiamento che ha segnato il giovane in profondità. Nel passato di quest’ultimo c’è infatti un periodo di non meglio precisata instabilità psicologica, tanto che ancora tira avanti a suon di pillole e sedute. Né si può dire che Davide abbia avuto una vita semplice. La sua ragazza, Silvia (Cristiana Capotondi), è ancora innamorata del suo ex, che manco a farlo apposta è pure il capo di Davide a lavoro. A tutto ciò si aggiunge un terzo trauma, ossia l’improvvisa morte del padre a seguito di un sospetto incidente stradale.
In superficie Un ragazzo d’oro fa perno proprio su questo mistero, ossia l’incidente mortale del padre. Sucidio? Distrazione? Oppure peggio, omicidio? A sua volta questo discorso ci introduce a quello che è il vero centro del film, ossia il rapporto tra Davide ed il padre. Rapporto logoratosi negli anni, perché Davide è sempre stato ostracizzato in tutto da quella figura da cui invece ci si aspetta solo conforto, fiducia, forza. Non è stato semplice crescere in un contesto dove colui che è dio ai tuoi occhi non ha fatto altro che ridimensionare, talvolta pure in maniera psicologicamente violenta, le tue aspirazioni, il tuo valore. E su questo batte essenzialmente la storia di Avati.
I nodi vengono al pettine nel momento in cui si apprende lo sviluppo di questa traccia. Che è sfacciatamente debole, alle volte pure pretenzioso. Pensiamo al mistero di cui sopra: in realtà non viene risolto, anzi, viene lasciato così, nell’aria, salvo voler speculare a tal punto da venirne in qualche modo a capo. Perché gli elementi forniti sono pochi e l’impressione è che si tratti tutt’al più di un depistaggio. Niente di male, se non fosse che tale scelta comporti una forzatura non da poco, scaraventandoci da un clima all’altro in men che non si dica. Banale quando viene evocato il tema del doppio, col figlio che, incalzato da un’avvenente amante del padre (Sharon Stone), si mette in testa di scavare nel suo passato per trovare una risposta a quel tragico epilogo. Che, come detto, viene lasciato in sospeso, perché in fondo, sembra suggerirci il film, «non è lì che devi guardare».
Pure ingolfato nel suo lento incedere, contrassegnato da svolte discutibili, in alcuni casi inspiegabili. Un ragazzo d’oro sembra proporre una logica tutta sua circa quella che è la realtà, con i rapporti e le relazioni ad essa afferenti. Solo che non si tratta di una mera prospettiva, ché è in fondo ciò a cui un autore deve sottoporci, bensì una sorta di rivisitazione, che però in questo caso è fuorviante, incerta. Ci si presta a quello scorrere d’immagini con fastidiosa indifferenza, perché a più riprese si cerca l’appiglio giusto grazie a quale “entrare” dentro quelle vicende, senza però mai riuscirci. Anzi, il film addirittura dissuade nell’intento, illustrandoci il tortuoso percorso del suo protagonista senza mai non diciamo esplodere, ma anche solo partire.
Nulla possono fare né Scamarcio, né Capotondi né tantomeno Giovanna Ralli. Figurarsi Sharon Stone, totalmente fuori contesto. Alle prese con una sceneggiatura così pesante, a tratti quasi parodistica, che procede per tentativi: come quello di gettare nella mischia Valeria Marini e farle recitare un discorso di funerale in cui dichiara la sua incondizionata riconoscenza al signor Bias per aver sdoganato il suo talento. Scelte rischiose, che a prescindere da qualsivoglia pregiudizio malizioso, sembrano buttate lì apposta per far scattare la risata. Tremendo è pure il ricorso a quella commedia italiana tipicamente anni ‘70/’80, volutamente sboccata, triviale, senza altra mira se non quella di portare sullo schermo dialoghi piccanti, tette, culi e cosce, prodromo di un fenomeno che si cronicizzerà sotto forma dei vari Vacanze di Natale e affini.
Nessun giudizio di merito, solo lascia perplessi, per non dire sospettosi, l’accenno a un discorso del genere, dato che il punto è questo: il padre di Davide rischia di rimanere per sempre vincolato a questo genere nel genere, mentre lui a quanto pare valeva molto di più… a rovinarlo sono state le cattive compagnie. Sì anche perché il tutto stona in particolar modo alla luce della piega che prende il film ad un certo punto, con questo figlio, già incasinato abbastanza, che si strugge al fine di riabilitare la memoria del padre. Quel padre che fino a poco prima odiava e che, dopo aver reperito alcuni appunti sparsi ed essersi fatto rincuorare dall’ex-amante, improvvisamente torna ad essere agli occhi di Davide l’eroe che era quando lui era bambino.
Un ragazzo d’oro contempla parte dei motivi più rilevanti per cui certo cinema nostrano, da circa vent’anni a questa parte, non ha lasciato il segno – o quantomeno, non per i giusti motivi. Tipico difetto della corrente a suo modo realista, quella che ha sfornato una lunga serie di drammi di cui abbiamo fatto e con ogni probabilità faremo a meno, ovvero prendersi inutilmente troppo sul serio. La tematica che giace al cuore di quest’ultimo film di Pupi Avati richiedeva senz’altro una certa tenuta, se non fosse che è girato con mano pesante, troppo pesante, mancando pure di quel ritmo e quella coerenza narrativa che avrebbero almeno permesso di seguire una storia interessante nell’incipit ma che fa acqua da tutte le parti. Piatto, filmicamente irrilevante: non sta certo a noi distribuire documenti di cittadinanza, né ci interessa “censurare” alcunché. Solo che è tempo di voltare pagina, se non altro perché abbiamo visto cosa certo cinema italiano (non) ha prodotto nel corso di tre decenni. Grazie al cielo i segnali ci sono, e non da ieri. Perciò basta più opere del genere.
Voto di Antonio: 1
Un ragazzo d’oro (Italia, 2014) di Pupi Avati. Con Riccardo Scamarcio, Sharon Stone, Cristiana Capotondi, Giovanna Ralli, Cristian Stelluti, Osvaldo Ruggieri, Tommaso Ragno, Sandro Dori, Fabio Ferrari, Antonio Caracciolo, Fabrizio Amicucci, Vanni Fois, Michele Sueri, Viola Graziosi e Patrizio Pelizzi. Nelle nostre sale da domani, giovedì 18 settembre.