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Una fragile armonia: Recensione in Anteprima

Quando la fragilità del singolo mette in discussione quella del gruppo, ecco che ogni singolo componente viene messo a nudo. Su questo si sofferma Una fragile armonia, storia che prende corpo attraverso le burrascose vicende di un affermato quartetto. L’umanità del singolo quale scoglio da superare per la stabilità del gruppo, ma non solo

pubblicato 10 Settembre 2013 aggiornato 31 Luglio 2020 09:49

Un affermato quartetto al culmine del proprio successo si scontra con i limiti dei singoli componenti. Laddove l’armonia è data dall’unione dei quattro, basta il minimo cedimento del singolo per propiziare la discesa. Così, quando all’apprezzato e veterano violoncellista Peter Mitchell (Christopher Walken) viene diagnosticato il Parkinson, il mondo dell’intero gruppo crolla addosso a ciascuno di loro.

Un singolo episodio innesca una catena, a tratti forzata, di eventi a loro modo catastrofici. Tra invidie, gelosie e malumori sopiti nel tempo, la convivenza degli altri tre viene messa a dura prova da scheletri nell’armadio che improvvisamente sbucano fuori con una veemenza improvvisa e violenta. Robert Gelbart (Philip Seymour Hoffman) e la moglie Juliette (Catherine Keener), rispettivamente secondo violino e violista, attraversano il primo vero momento di instabilità coniugale nella storia del proprio rapporto. Invidie e rivalità divengono pretesto per mettere tutto in discussione, dall’equilibrio del gruppo a quello delle singole relazioni.

Così è per il primo violino, Daniel Lerner (Mark Ivanir), uomo dedito anima e corpo alla propria vocazione, che al tempo stesso lo ha reso freddo, umanamente distante da ciò che lo immediatamente lo circonda; a tale condizione viene quasi contraddittoriamente opposta la profonda sensibilità del primo violino, dato che Daniel è un personaggio che vive intensamente tutto ciò che concerne la musica, tanto da non lasciare spazio per nessun’altra persona né per nessun’altra cosa. Il film sostanzialmente procede assecondando gli scontri incandescenti tra i componenti del quartetto, chiamati ad attraversare un momento di crisi radicale, dove quell’armonia tanto duramente acquisita viene messa a repentaglio come mai prima d’ora.

Lo spunto attorno al quale viene costruita l’intera vicenda risale al Quartetto in Do diesis min. dell’opera 131 di Beethoven, l’ultima, si dice, che Franz Schubert volle ascoltare poco prima di morire. E la trama viene disseminata di piccole indicazioni sul perché a riguardo, perché alla 131 si allude quale opera tra le più travagliate del celeberrimo compositore, che per essere suonata abbisogna non solo di abilità ma di cuore, di quel totale trasporto che trascende note e spartiti. Un’armonia viscerale, dunque, tra la musica ed il proprio essere: la stessa, pare di capire, che può essere raggiunta solo nell’incontro/scontro con l’altro, nella sua accettazione, così come nell’accettazione dei propri limiti, dei propri difetti. Perché se è vero che uno solo ha composto l’opera, servono più musicisti per eseguirla così come concepita. Una metafora su cui il regista e sceneggiatore Yaron Zilberman ha scommesso tutto, cercando di limare i contorni in maniera non sempre efficace.

Tolto infatti l’interessante incipit, dapprima il film ripiega su una sorta di autocompiacimento, dovuto essenzialmente alla descrizione di un contesto colto e raffinato, come non si fatica ad immaginare quello all’interno del quale operano dei celebrati artisti come sono i personaggi di questa storia. Nonostante tutto, però, si riesce con discreta facilità a seguire la vicenda, che ad un certo punto prende però una piega peggiore. Quando infatti emergono i primi screzi coniugali, il tutto muta nel dramma familiare senza infamia e senza lode; il dissidio coniugale, con tanto di scappatella, è tanto telefonato quanto privo di mordente. Ad un certo punto si riesce ad anticipare buona parte delle svolte successive, per via di uno sviluppo per alcuni versi sin troppo programmatico, come a voler a tutti i costi unire dei punti il cui ordine non necessariamente è lo stesso.

L’indiscutibile cast finisce a sua volta col non reggere uno scenario di questo tipo, sebbene le prove dei singoli restino pressoché inappuntabili. Il personaggio di Hoffman, per esempio, è patetico: roso dall’invidia e dal malcelato livore, in un primo momento non fa che ripetere quanto si senta mancato di rispetto dagli altri componenti del gruppo, inclusa sua moglie, salvo poi sbuffare (e a ragione) quando con altrettanta pedanteria Daniel e Juliette si industriano maldestramente a tranquillizzarlo con frasi che suonano un po’ come «su con la vita, tu sei senz’altro il miglior secondo violino in circolazione. E poi noi ti rispettiamo, senza di te il quartetto non sarebbe più lo stesso». Scene pietose, che fanno il paio con alcuni passaggi ondeggianti tra la commedia (la scappatella della figlia, interpretata da Imogen Poots) e la telenovela (il quasi adolescenziale tradimento di Robert).

Un film che dunque si perde essenzialmente a metà strada, quando certi episodi vanificano una seppur affascinante idea, che vuole la vita come una continua riflessione sulla stessa, non nel cupo spazio di chi ripiega in sé stesso bensì nella convivenza più o meno letterale tra più persone. Nel coltivare un’armonia che non si può né si deve mai dare per acquisita, non importa quanto tempo sia trascorso da quando ci si è imbarcati in questo gravoso e tutt’altro che facile progetto. La malattia di Peter quale occasione per ciascuno dei componenti del quartetto è un’intuizione senz’altro riuscita, quantunque non per forza inedita, la cui efficacia si scontra col muro di una messa in scena discutibile.

Restano alcune chiavi di lettura stimolanti, che hanno per lo più a che vedere con l’incipit e con lo sviluppo di uno dei protagonisti, ossia il primo violino Daniel, la cui gelida ostinazione verso la perfezione non lascia indifferenti, anzi. Il resto è un’opera discreta, che si prende pochi rischi, e che dunque procede senza particolari colpi di coda. Una tranquillità forse eccessiva, che alla lunga non depone tanto a favore del mirabile obiettivo iniziale.

Voto di Antonio: 5,5

Una fragile armonia (A Late Quartet, USA, 2013) di Yaron Zilberman. Con Philip Seymour Hoffman, Christopher Walken, Imogen Poots, Catherine Keener, Wallace Shawn, Mark Ivanir, Madhur Jaffrey, Liraz Charhi, Megan McQuillan, Marty Krzywonos, Anne Sofie von Otter, Sanjiv Hayre e Jasmine Hope Bloch. Nelle nostre sale da giovedì 12 Settembre.