Undine, recensione, Christian Petzold mescola mito, folklore e quotidianità
Dopo l’Orso d’argento a Paula Beer, Undine arriva nelle nostre sale. Leggete la nostra recensione dell’ultimo film di Christian Petzold
Una voce chiama Undine (Paula Beer), appena entrata in un locale in cerca di qualcuno. Lei, storica di professione di una Berlino che, giorno dopo giorno, illustra per com’è e per com’era a turisti e professionisti, è un po’ come se l’evoluzione di questa città l’avesse vissuta, non solo studiata. L’ultimo lavoro di Christian Petzold muove dalle premesse di un’ordinaria liaison romantica, e così procede per i primi venti minuti circa. Undine viene lasciata davanti a una tazza di caffè da Johannes, al che quest’ultimo viene minacciato: «sai che sei mi lasci dovrai morire, ti ucciderò». Vuoi le espressioni della donna, vuoi il ritmo placido, sta di fatto che il prologo di Undine è una masterclass di scrittura per come il regista tedesco gestisce tempi ed informazioni, senza forzare alcunché ma contemporaneamente introdurci in questa vicenda, che ambigua lo resterà fino all’ultima inquadratura.
Vale la pena fare leva proprio su come Undine ci viene “apparecchiato” davanti, alla luce di una chiosa che funge sia da elemento ricorsivo in tutto il film, sia da passaggio che scoperchia la storia. Quando alla fine di quest’asciutta ed elegante introduzione Undine e Cristoph (Franz Rogowski) si conoscono, infatti, in scena irrompe qualcosa che trasporta il tutto da un’altra parte, in un’altra dimensione: prima la voce di cui in apertura di recensione, poi l’esplosione di un acquario. Pericoloso dire di più.
Undine perciò rimane una storia d’amore, è quella cosa lì; senonché a farla da padrone non è il rapporto tra i due amanti, classico scenario da relazione fresca, quasi da prima infatuazione, con sguardi e parole dolci, il non riuscire a staccarsi l’uno dall’altra e via discorrendo. Qui Petzold sa di doversi mantenere su un livello di verosimiglianza addirittura di per sé poco interessante, se vogliamo, dato che a questa normalità oppone una componente “altra”, attingendo dal mito e dal folklore, essendo Undine, sebbene non venga mai chiarito, una ninfa dell’acqua.
Acqua che ha evidentemente un ruolo centrale, legato alla (ri)nascita, a quella ritualità che nel racconto viene integrata: mi riferisco alla scena della prima immersione dei due protagonisti, che, lavorando per astrazione, si pone a metà strada tra battesimo e matrimonio. Affascina non poco il modo in cui Petzold gestisce queste due dimensioni; la prima, smaccatamente realistica, l’altra, intrisa di soprannaturale. È tutto molto sfumato, eppure nitido, più quotidianità che sogno, anche in quei frangenti in cui accadono eventi che non è facile catalogare come verosimili.
Le vie mediante cui Undine fugge certe razionalizzazioni colpiscono quindi proprio in funzione del procedere lento ma inesorabile del film, il cui racconto, a parte quel momento che stravolge l’assetto della storia, ossia appunto l’esplosione dell’acquario, non registra mai alcun picco, men che meno estemporaneo – a dire il vero c’è un altro punto, sul finire, in cui si assiste a un’altra impennata, sebbene d’intensità più contenuta, come se, da quel momento in avanti, lo spettatore, per capire meglio ciò che sta accadendo, debba necessariamente abbandonare la prospettiva di Undine ed adottare quella di Christoph; diversamente non vedo come potremmo anche solo accostarci con più cognizione di causa allo sviluppo.
Viene da pensare ad un altro film, uscito l’anno scorso, ossia Ride Your Wave di Masaaki Yuasa. Altra bestia, non solo perché si tratta di un anime; eppure l’analogia sta nel contemplare entrambi una parabola romantica/sentimentale, con l’acqua a fare da trait d’union. L’uscita ravvicinata di entrambe le opere incuriosisce, specie perché ci permette di declinare una tematica parecchio simile sotto la lente di due sensibilità diverse, consentendoci di penetrare meglio le peculiarità e dell’uno e dell’altro. Non dico che l’ultimo lavoro di Petzold necessiti di un termine di paragone per funzionare, operando a sé stante più che dignitosamente per i motivi espressi sopra. Dico però che tocca rendersi conto quanto sia difficile veicolare certi temi, anche solo maneggiarli, quando non puoi contare sull’esuberanza a priori dell’animazione, e nello specifico di un regista come Yuasa; un accostamento del genere contribuisce dunque ad illustrare ancora meglio come e perché Undine riesca, con poco, nel suo tentativo di proporre un contesto così particolare, sfuggente ma non per questo sfocato.
Undine (Germania, 2020) di Christian Petzold. Con Paula Beer, Franz Rogowski, Maryam Zaree, Jacob Matschenz, Gloria Endres de Oliveira e Rafael Stachowiak. Nelle nostre sale da giovedì 24 settembre 2020.