Un’odissea senza kolossal, la parodia di Dino De Laurentiis, storia di Mario Prosperi, geniale, cinesta e soprattutto teatrante
Storia di un uomo di teatro e di cinema, dentro e fuori i set di grandi autori come Marco Bellocchio, ma soprattutto dentro e fuori il teatro (che amava di più)
Il titolo originale di questo pudico ricordo, colmo di stupore, era “Un’odissea, senza kolossal, storia di Mario Prosperi, geniale, ma colmo di troppo pudore”. Poi ho subito tolto il “ma”. Che poteva sembrare, ed era, negativo. Una tiratina d’orecchio a un amico che ho perduto col tempo, dopo i primi e secondi incontri fra i molti che seguirono. Resteranno per sempre pudore e stupore per la notizia della sua morte, appresa casualmente.
Mario è stato un cineasta a getto discontinuo. Sceneggiatore nei primi anni Settanta in una grande produzione di Dino De Laurentiis, tra cinema e tv. In tv venne presentata con il titolo di “Odissea”, a puntate; nei cinema la produzione cambiò titolo in “Le avventure di Enea” (1974), sempre per la regia di Franco Rossi. Attore con Marco Bellocchio per “Salto nel vuoto” (1980), con Felice Farina per “Sembra morto ma è solo svenuto” (1987); Rosalia Polizzi, “Anni ribelli” (1994); Daniele Luchetti, “La scuola” (1995). Cineasta, frequentatore di cinema, attratto dal teatro per ragioni di famiglia e di fascinazione giovanile.
Mario è stato un autore, attore, ripetitivamente, appassionatamente. Colto, gentile, preparato, era figlio di un critico teatrale, drammaturgo, Giorgio; di fronte al quale, il dolce, disciplinato, alto borghese bene educato, rispettoso di tutto e di tutti, fin troppo, forse nell’intimo tremava anche se forse lo aveva preso a modello, un modello imposto, in una Roma di famiglie che covava e lanciava i figli dell’establishment culturale come una chioccia pretenziosa.
Mario, di sicuro, lo sapeva. Sapeva di questo giro chiuso e poco frugale, anzi avido di posti e di potere nel cambio dei regimi dal fascismo a quelli generati da forme balbettanti di democrazia dopo la fine della guerra, della dittatura, e il crepuscolo della Resistenza. Un mondo immobile, cocciuto nell’errore.
Mario era troppo sensibile per sentirsi a suo agio un ambiente che lo favoriva negli automatismi di classe abbiente ma che lo faceva soffrire, fino ad umiliarlo. Aveva iniziato a scrivere in grande o meglio in kolossal, dopo la laurea e un primo testo per la scena intitolato candidamente “L’inesperienza d’amore”; inesperienza e voglia di lacerarla, anzi di trasgredirla a suo modo, con ingenuità rozza, dolorosa, desiderosa di verità di vita, oltre di passioni civili. Il kolossal era l’“Odissea” di Franco Rossi (che diventerà “Le avventure di Enea”), collaborazione tv e cinema, quando i due media che fino a quel momento si erano guardati in cagnesco, cercavano intese. Mario, giovane, veniva inserito in una grossa produzione bluff.
Grossa anche l’occasione per Mario che da allora in poi ebbe rapporti discontinui con una tv che non gli piaceva, se non per l’argent de poche, e che amava servirsi più del padre che del figlio. Mario voleva fare di testa una. Voleva andare contro corrente. Non aveva nulla o poco in comune con i contestatori dell’epoca, fine anni Sessanta e inizi Settanta. In genere tromboni o aspiranti tromboni di rivoluzioni d’ogni tipo, soprattutto in amore, favorito nel sex dalle pillole che grandinavano dalle felici case farmaceutiche dei condom da inghiottire.
Mario prese a misurarsi con personalità forti, nei drammi proposti nel magazzino detto teatro “Politecnico”, palestra di umori e idee diverse, penne all’arrabbiati. cugini gelose e incazzati contro la sinistra doc con bolli di qualità trafugati a Majakowskij e Esenin, poeti, che della rivoluzione sovietica, e delle sue retoriche, sono morti. Figure come Savonarola, chiamato a Firenze da Lorenzo de’ Medici che lo voleva al suo fianco da acceso fiancheggiatore, e che arrivò a Florence quando Lorenzo era ormai volato via, chissà dove con il corteo di banchieri e artisti di cui si era circondato aveva creato il Rinascimento. Titolo del testo “La persecuzione e morte di Girolamo Savonarola” (1969).
A Mario piaceva il Savonarola incazzato contro le vanità che subito diede al rogo le vanità e le vanitosità di lor signori. Fra Giacomo esagerò con le fiamme, Firenze si ribellò e lo mise allo spiedo per idee troppo severe, troppo spicciative. A Mario piacque Franz Fanon e scrisse un testo tratto da un capitolo di un sui libro; Fanon lo psichiatra che in Algerina dei piedi neri neri e dei piedi neri (nati in Africa) si batteva per il Terzo Mondo e conquistò i Jean Paul Sartre del Primo Mondo.
L’Europa era incazzata e con i ragazzi del Maggio parigino inseguiva che aveva cominciato e Mario andò nella patria di Mario Savio, italo migrante che a Berkley aveva guidato la sommossa degli studenti, vedi “Fragole e sangue”, film di protesta e di amori sex, nella California mito degli scapestrati dal cuore pieno di desideri.
In realtà, aveva vinto una borsa Fullbright, money money, e andò a vivere e a studiare a New York, a Washington Square, studiò e scrisse una tesi di dottorato dal titolo rivelatore “L’abbandono della forma drammatica nell’avanguardia degli anni 60”. Aveva ragione: l’avanguardia cominciata bene in Italia con Carmelo Bene e con l’arrivo del Living Theatre di Julian Beck e Judith Malina, un lucifero pugliese e due angeli americani, già si incamminava nel destino che verrà raccontato da Erich Hobsbawn in “Il secolo breve”: una scomparsa, cioè il cimitero lussuoso, fecondo, del futurismo, cubismo, surrealismo; la falce della storia e dei musei. Tornato dall’America, aveva raccattato dopo un matrimonio esploso in divorzio un po’ d’amore con una ragazza sempre nuda in scena di un gruppo d’avanguardia di Foreman, simpatico teatrante da loft.
Mario esplose con suadente rabbia produttiva nel teatro con un testo dopo l’altro. Cumuli di premi. Temi d’ogni tipo: lui zio Mario in una satira familiare; un Anticristo; la figlia di Augusto; Quo vadis?; un docente furioso; un Mussolini e il suo dopp; Eloisia e il suo maestro; e poi, via via, adattamenti, riduzioni, drammaturgia religiosa, autobiografia, denuncia della camorra, Bonifacio VIII, l’Islam…
Decenni di lavoro intenso, febbrile, senza soldi o con pochi soldi, gestioni scricchiolanti, e premi, ancora premi. Ossequio d’amore filiale al padre Giorgio, croce e delizia del Mario di sempre, che curò due volumi di raccolta delle sue critiche, per gli scaffali della università e delle biblioteche.
Un fanatico della scena, era Mario. Sempre garbato, generoso se era possibile (e lo era spesso), ghiotto di attenzione e di applausi, di voglia di rappresentarsi, furia, dedizione, sorrisi, lasciando che il corpo abbandonato a se stesso cominciasse a soffrirne, cercando forse la fine che è arrivata in un’età che oggi può essere un’aurora: settantaquattro anni.
La macchina di passione per il teatro, teatro inteso come rivelazione al mondo del proprio mondo di dargli tutto, si è fermata, nel silenzio.
La notizia, io, l’ho appresa dal necrologio di un giornale. Squillava di burocrazia. Ci vedevamo poco. Avevo cominciato ad odiare il teatro che non mi allacciava più e, secondo la mia delusione, si stava perdendo tra scartoffie, sovvenzioni, molte umiliazioni, disperazioni, televisioni. Una lunga serie di “ioni” nodosi come le spire di un serpente che strangolava.
Scrissi, nel congedo dal teatro anni prima della morte di Mario, una recensione ad un suo spettacolo, all’Argentina, che mi sembrò forse a torto, non ricordo neppure il titolo, un pasticcio nel pasticcio; una sorta di delirio, forse invece era soltanto un segnale all’Artaud dal rogo, uno dei tanti, del teatro.
Mi telefonò, per chiedermi conto. Non ci sentivamo da tempo. Non mi sgridò, non si lamentò, farfugliò, farfugliammo qualcosa; ci salutammo. Ora che non c’è più, e il silenzio lo divora, ecco che mi torna in mente uno dei suoi spettacoli dimenticati, “Produzione De Cerasis” (premio IDI 1984). Una satira di Dino De Laurentiis, l’uomo dei kolossal. Una satira potente, forte, profonda. La verità caricaturale di un teatro e di un cinema allacciati in un tango di morte e di incoscienza felice.
Mario, truccato da Dino, cadenza partenopea e parte romana, al centro del mondo eccitato, falso, sincero, travolgente, ridicolo, irresistibile della rappresentazione. Mario che si vendicava e si esaltava, con il sorriso, e risate in sala. Una sintesi. In un’Italia che si preparava a soffrire le interminabile satire della politica in tv e in parlamento, dei narcisi nominati al potere, delle dame di corte e delle cortigiane, dei corrotti al potere.
Era un uomo buono Mario, e in lui la bontà ha acceso molti fuochi per amore del teatro e perché a questo la famiglia lo aveva portato. Una famiglia troppo piccola per lui, quella del teatro che non sa dove andare e si celebra nella memoria. Ma noi speriamo ancora, sempre, non ci va di smettere di sperare.