Unsane: recensione in anteprima del film di Steven Soderbergh
Soderbergh ha definito le riprese di Unsane un processo liberatorio. Al di là di facili proclami, questo suo ultimo lavoro resta un thriller psicologico ben confezionato, che ci parla di paure e ossessioni ataviche declinate però in ottica contemporanea
Sawyer (Claire Foy) ha da poco cambiato città: nuovo lavoro, quasi nessuna amicizia, non poca pressione. Proprio all’inizio viene convocata dal suo capo, il quale si complimenta per l’impeccabile lavoro svolto sino a quel momento, davvero sorprendente: di lì a poco scatta la proposta… «dovresti venire con me in questa trasferta; sarebbe un’opportunità importante per te». Dovremmo grossomodo già intuire dove Unsane andrà a parare, senonché ancora è difficile cogliere a pieno. Sawyer intrattiene una conversazione con la mamma su FaceTime, mentre sbocconcella con le mani la sua insalata, e capiamo che la scelta di allontanarsi non l’ha gratificata così tanto, sebbene fatichi ad aprirsi persino con sua madre. In dieci minuti Soderbergh ci ha agganciato, rivelando quanto basta per avere la nostra attenzione.
Unsane è il suo primo thriller psicologico, per un progetto che segna anche un’altra, significativa prima volta, ossia il ricorso ad un iPhone 7, con cui ha girato l’intero film. Così come accaduto per Tangerine, non sono mancate le malelingue che alludono alla misura pubblicitaria, l’ennesima trovata acchiappa-click per gonzi; e, allora come adesso, tocca dare loro torto di nuovo. Così come per il film di Sean Baker, anche a ‘sto giro viene fuori che certi discorsi possono avere un senso finché non ci si trova davanti il film, ed allora si viene messi con le spalle al muro, dovendo riconoscere che, quale che sia stata la strategia di promozione, il prodotto non è solo un prodotto.
Altri appronteranno dibattiti sullo stato della tecnologia, perciò sulla proponibilità o meno di una nuova ondata di produzioni che fanno affidamento sugli smartphone quale soluzione unica o quantomeno privilegiata; in questa sede può interessarci rilevare come la questione sia oramai per lo meno ammissibile, quasi imposta appunto dall’esistenza stessa di film come Tangerine e Unsane. A livello tecnico permangono dei limiti, è evidente, si guardi per esempio ad alcune scene in esterna in cui il contrasto delle immagini è alto e l’iPhone non regge la luce naturale, che in pratica è come se esplodesse, generando un effetto a dire il vero straniante. Nondimeno, chi può negare con assoluta certezza che un simile risultato possa essere espressione di un preciso indirizzo artistico?
Per quanti difetti sia possibile riscontrare, emerge almeno un pregio che, a parere di chi scrive, giustifica in larga parte la scelta: le immagini così girate, infatti, trasmettono un senso d’immediatezza, un «essere lì», sul posto, che né la pellicola né camere digitali professionali possono conseguire. Nell’era di YouTube, sdoganata oramai da anni, siamo semmai in ritardo, se non altro perché questa ritrosia ci priva della possibilità di accumulare casistica, di far emergere tutte quelle magagne con cui tocca confrontarsi, magari perfezionando il processo. C’è poi da essere d’accordo, per chiudere questa parentesi, con chi vede in simili iniziative l’ennesima «chiamata alle armi», l’invito a cimentarsi, senza cadere nell’ingenuità di chi non riesce a contestualizzare e comprendere che tale fenomeno, chiamiamolo «mobile filmmaking», non è la panacea di tutti i mali e che evidentemente un conto è partire da zero, altro abbracciare in corsa la causa, quando sei già un cineasta affermato.
Il punto è, e qui torniamo a bomba nel merito, che un film come Unsane conferma che quell’enigma che chiamiamo fare film non lo si risolve con la tecnica, la quale semmai ci offre spunti, ma che non basta a sé stessa. Riaffacciandoci infatti sulle peripezie di Sawyer, da un certo punto in avanti si avverte così vividamente una cappa opprimente che non ha certo a che vedere con il dispositivo attraverso il quale sono state catturate le immagini, se non in misura leggera. Quando la protagonista tiene infatti un colloquio con una psicanalista presso questa struttura ospedaliera, viene innescata una situazione tra il grottesco e il surreale, Sawyer per l’appunto costretta ad essere ricoverata; un ricovero che è più una prigionia, e sulla quale la ragazza non ha voce in capitolo per via di una Legge che autorizza un medico a trattenere un paziente contro la sua volontà qualora riscontrasse in quest’ultimo una potenziale minaccia per sé stesso e per gli altri.
In pratica Unsane, almeno in un primo momento, muove da una sorta di buco legislativo, reale o fittizio, che diventa un pretesto eccezionale per costruirci su un horror. Per il resto si tratta in realtà di due film, dato che ad un certo punto si vira su tutt’altra tematica, in relazione alla quale non è il caso svelare alcunché, dato che parte della riuscita di questo lavoro di Soderbergh sta proprio nella gestione del passaggio dal primo al secondo leitmotiv. Il tutto accompagnato da un’alternanza di registri notevole, per cui si riesce persino a sorridere in alcuni passaggi, malgrado il contesto ma soprattutto certi sviluppi siano perversi. Eppure no, non si esce mai di pista; Soderbergh contiene ogni possibile exploit, tenendo salde le redini di una narrazione che incalza fino alla fine, lasciando costantemente qualche spiraglio per dubitare, per supporre che le cose possano stare in un modo così come nel suo opposto.
Aiuta, certo, il fatto che Unsane sia un film piccolo, per così dire, ma in cui tutto è al proprio posto, dando peraltro ragione nel corso della vicenda alla decisione di optare per quello che Soderbergh definisce il «game changer», ossia servirsi di uno strumento come un cellulare; abbiamo già detto in merito all’effetto d’immediatezza generato, ma vanno altresì segnalate inquadrature più particolari, alcune che rimandano ad Ozu, in cui l’attore guarda direttamente in macchina durante un dialogo. Per il resto è il solito Soderbergh più interessato alle idee che altro, infatti Unsane ne propone alcune interessanti, e a più livelli, sia narrativi che di forma (di quest’ultima abbiamo accennato). Non si pensi infatti che la questione iPhone sia solo un’espediente promozionale, dato che ha una funzione significativa pure nell’economia di una trama che mette in evidenza vizi e virtù dell’utilizzo che ne facciamo oggi; basti pensare che alcuni degli step chiave sono propiziati proprio da messaggi o telefonate, il che, per un verso o per l’altro, ha un che d’inquietante di per sé.
Davvero dunque non si capisce cosa si possa dire ad Unsane, salvo non voler ancora una volta puntare il dito sul fatto di non operare chissà quale divario rispetto al genere o che so io. Funziona pressoché tutto, anche quei personaggi prevedibili nei contorni e negli atteggiamenti, perché in fondo l’ultimo lavoro di Soderbergh è una scatola congegnata secondo canoni specifici, che magari vuole pure dire qualcosa d’intelligente sul momento attuale, mostrandosi tuttavia attento allo spettatore, che viene coinvolto in questa discesa di Sawyer laddove deve confrontarsi con paure e ossessioni. Manca forse l’intensità di opere più grandi, ma l’intento mi pare non abbia nemmeno sfiorato il regista, il quale peraltro ha sempre lavorato meglio in altri territori, operando anche qui con competenza nell’ambito di quell’alternanza dei registri evocata sopra. Quando perciò Soderbergh dice che gli è tornata la voglia di girare film dopo aver “scoperto” la possibilità di girare con un dispositivo così minuscolo, quale che sia stata la verità in precedenza, un po’ più ispirato lo sembra davvero (in un film che non ha solo diretto, ma anche fotografato e montato sotto pseudonimi).
Unsane (USA, 2018) di Steven Soderbergh. Con Juno Temple, Claire Foy, Amy Irving, Joshua Leonard, Aimee Mullins, Jay Pharoah, Sarah Stiles, Colin Woodell, Ursula Triplett, Laura Rothschild ed Erin Wilhelmi. Nelle nostre sale da giovedì 5 luglio 2018.