Venezia 2010: Black Venus colpisce e si candida per il Leone
Venezia. La Venus ottentotta è stata liberata dal Museo dell’uomo a Parigi, trattenuta lì dal lontano 1817 perché mostrava secondo agli scienziati alcune caratteristiche fisiche simili a quelle degli oranghi; e sepolta nel 2002 nella terra di origine, il Sud Africa. Il regista franco- tunisino, Abdellatif Kechiche, autore del successo del suo precedente “Cous cous”,
Venezia. La Venus ottentotta è stata liberata dal Museo dell’uomo a Parigi, trattenuta lì dal lontano 1817 perché mostrava secondo agli scienziati alcune caratteristiche fisiche simili a quelle degli oranghi; e sepolta nel 2002 nella terra di origine, il Sud Africa. Il regista franco- tunisino, Abdellatif Kechiche, autore del successo del suo precedente “Cous cous”, parte da qui per un grande film, troppo lungo però, che ha colpito tutti, a pochi giorni dalla conclusione della Mostra. Vecchie strategie del Lido comprovano che i film posti ridosso degli ultimi giorni dovrebbero attestare qualità e quindi candidarsi ai primi, Leone e leoncini vari.
La Venus noire è il titolo originale del lavoro. “Ottentotta” era la definizione con cui erano nominati gli africani in una parte della zone meridionale del continente. La parola è di origine olandese e signica “balbuziente”. Gli olandesi colonialisti, chiamati afrikaners se nativi , li accostavano ai boscimani. Un filo che va indietro nella interminabile notte dei tempi.
L’idea di Kechiche è quella di tornare al passato, e di restarvi nello scenario europeo (la vecchia Inghilterra e la vecchia Francia), per mostrare non soltanto la storia ispirata a quella di Saartjie Baartman, a quel corpo nella tomba museale, ma una condizione di vita dolorosa e commovente. Basterà dire che la “Venus ottentotta” viene esibita dal suo padrone- impresario nei luna park, accanto ai fenomeni o agli scherzi di natura, con appena indosso un tutina color carne che lascia vedere il mostruoso seno, il mostruoso sedere, e mostruoso è il volto dagli occhi mostruosi.
Venus, una belva che non parla, balbetta, gratta una specie di violino. Vale una barca di soldi di cui solo un obolo finisce in mezzo al petto gigante, una sorta di cassaforte, della giovane carica di molte disgrazie nelle sperdute lande africane; e che sogna di diventare un artista.
Non vado avanti con la trama che ha il respiro romanzesco di uno Zola o di Hugo, o di un Dickens. Sarebbe bene che, indipendentemente dai premi, il pubblico vada a constatare di persona. Verificare soprattutto un’ analogia che si fa presto largo in una pellicola in costume. La vedi, questa attrice dalle forme possenti, questo corpo offerto alle brame di popolani o di signorotti, allo stesso modo come oggi vedi le immagini della tv e dei giornali inseguono le porno star nei locali dove si esibiscono. Guardare ma non toccare, si diceva una volta. Una volta, appunto. Moana Pozzi e le altre ragazze degli show dal vivo , bianche o nere, nessuno degli impresari anche dei night le vorrebbe in scena se non si facessero toccare.
Kechiche riesce dunque a sottolineare con un vigore che aveva già profuso in “Cous cous” (una delle più belle e simboliche danze del ventre mai viste sullo schermo) la profondità del razzismo e le sue radici nei comportamenti di noi bianchi, specialmente se si tratta di emigranti e di donne. Lo svolgimento è teso. Le emozioni stemperate in continui risvolti, tutti necessari a seguire un itinerario che comincia e finisce come una sorta di dissertazione scientifica. Peccato, come dicevo, che “Venus ottentotta” sia stato messo dal regista su binari che a volte lasciano affiorare un compiacimento nella rappresentazione del calvario di Saartjie.
Si capisce subito l’intenzione di Kechiche: provocare visivamente, come per un procedimento di tortura, chi certe forme di schiavitù o di umiliazione non sa leggerle o le legge solo attraverso la manipolazione consolatoria dei massmedia ufficiali. In questo senso, ci troviamo nel pieno di una protesta contro i razzismi di ieri, di oggi e chissà se di domani, in una chiave come dire antropologica che scavalca con le emozioni dello spettacolo, in cui questa chiave è resa, ogni barriera e raggiunge cuore e cervello.
Un film che sarebbe piaciuto a Pier Paolo Pasolini, anche lui da sempre impegnato a segnare una ferma linea di demarcazione fra impegno troppo generico ed esplorazione di prevenzioni, paure, voglia di prevaricazione di mentalità occidentali rispetto al resto del mondo. Come non ricordare, i doc di Pasolini girati tra India e Africa per arrivare alle radici del razzismo generico e diffuso?
Kechiche invita a una considerazione finale, riguardante il cinema italiano che continua a fissare la macchina da preso sul proprio o sui propri ombelichi (a causa di finanziatori, politici con le mani in pasta nei finanziamenti, registi e sceneggiatori), ovvero di temi brucianti- li abbiamo sotto gli occhi tutt i giorni- affrontati e proposti senza vera capacità di analisi e di denuncia. Alla Mostra carrettata di lavori italiani, una quarantina, nessuno dei quali sembra in grado di sollevare il mattone sul formicaio delle nostre arretratezze. Mancano due giorni- giovedì e venerdì- e continuiamo a sperare che il cinema made in Italy abbia in serbo qualche sorpresa: anche poetica, cioè non avvilita dalle posizioni per partito preso. Ciao Venus, noi qui in Italy siamo forse solo un museo.