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Venezia 2010: Guai se abdicasse La Pecora Nera

Visioni avveniristiche per il Lido veneziano. L’Hotel des Bains, quello di Morte a Venezia di Luchino Visconti, dal romanzo di Thomas Mann, è fasciato di tubi innocenti. Scorrono le lacrime in tutti questi tubi invasi dai ricordi. Tramontano i trascorsi di lusso degli inizi del Novecento e il magnifico hotel si prepara ad essere un

pubblicato 2 Settembre 2010 aggiornato 1 Agosto 2020 20:57

Visioni avveniristiche per il Lido veneziano. L’Hotel des Bains, quello di Morte a Venezia di Luchino Visconti, dal romanzo di Thomas Mann, è fasciato di tubi innocenti. Scorrono le lacrime in tutti questi tubi invasi dai ricordi. Tramontano i trascorsi di lusso degli inizi del Novecento e il magnifico hotel si prepara ad essere un residence (di lusso?) per tristissimi turisti a caccia di antichi fasti della Serenissima. Piange anche l’Hotel Excelsior, altro luogo della tradizione festivaliera, che piegherà le ginocchia davanti alla devastazioni di una crisi che oggi viene chiamata ristrutturazione.

Dentro le sale della Mostra ghignano con occhi asciutti i turisti colti (?) del cinema che si aggrappano ai film come a zattere sulla terra ferma. Nostalgie di quanto il cinema-cinema era fatto di pecore nere, ossia di autori come gli italiani Rossellini, Monicelli, Fellini, Rosi, Antonioni, Pasolini, Leone, lo stesso Visconti, e come gli stranieri Malle (il film scandalo “Gli amanti), Richardson (“Billy il bugiardo”), Losey, Russell (“I diavoli”). Tanto per citarne alcuni. Bei tempi di incazzature e risse artistiche.

Ora si va a passo di lumache più che di pecore. Ma forse non tutto è perduto, nella speranza che Venezia 67 metta almeno qualche marcia più alle lumache. Ci si aspettava molto, forse troppo, da La pecora nera di Ascanio Celestini preferito a Pupi Avati come uno dei quattro film nostrani in concorso. Dico subito che la scelta del direttore è stata azzeccata, anche se non posso fare confronti non avendo visto il lavoro di Avati.


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Azzeccata per un motivo: il coraggio di proporre un test per un teatrante come Celestini che dimostra sempre un gran talento e una gran voglia di “imparare”, soprattutto adesso con la macchina da presa, per lui nuova.

L’idea è doppia. Raccontare un manicomio in astratto- ma certo prima della riforma Basaglia che chiudeva questi “ospedali-ghetto”- rifacendosi ad un periodo che va dagli anni Sessanta e agli anni Ottanta. Una storia attraverso le vicende di un ragazzo che si estranea a tutto e a tutti, coltivando una visione delle cose e delle persone che gli permette di stare con i matti “veri”, come se vi si specchiasse. Ambienti e gente comune che si rassegna a un’esistenza lambita dal mondo esterno, consumi e sesso. Tutto ciò immerso in una atmosfera stralunata e sacrale, come suggerisce Celestini (che vede santi dappertutto), allo stesso tempo alienata ma in fondo confortevole, colma di dolorosa umanità.

Un’ora e mezzo che viene tenuta insieme dalla voce narrante del regista-attore, una narrazione a singhiozzo. Un debutto interessante ma per il cinema il prode Ascanio, bravo a scrivere, ha bisogno di mangiar tanta pellicola e farsi venire il sedere piatto in moviola. E prenda lezioni, senza complessi di inferiorità, dalle “pecore nere” del grande cinema. Urlavano al cielo come leoni.

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