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Venezia 2010: I numeri primi non soffrono di solitudine

Venezia. Giorni di solitudini al Lido. La solitudine della Venere Nera, al centro del bel film di Kechiche, che sempre più sembra avviata a risolversi in un premio in mezzo alla folla. La storia della “ottentotta”, che dal luna park viene trasferita da morta al parigino museo dell’uomo oltre un secolo fa, ha scosso un

pubblicato 9 Settembre 2010 aggiornato 1 Agosto 2020 20:41


Venezia. Giorni di solitudini al Lido. La solitudine della Venere Nera, al centro del bel film di Kechiche, che sempre più sembra avviata a risolversi in un premio in mezzo alla folla. La storia della “ottentotta”, che dal luna park viene trasferita da morta al parigino museo dell’uomo oltre un secolo fa, ha scosso un poco tutti grazie alla sua dolorose, emblematica vicenda, vittima del razzismo e della più gretta, volgare manipolazione dell’antifemminismo. Una solitudine nel frastuono delle colpe di maschi, vuoi che fossero scienziati dabbene o impresari a caccia di denaro, a spese di un corpo presentato come un fenomeno da baraccone.

In un clima di attesa, è arrivato il film che Saverio Costanzo ha ricavato dal romanzo di Paolo Giordano, La solitudine dei numeri primi. Ovvero, quei numeri che sono divisibili per uno o per se stessi, numeri solitari e incomprensibili agli altri. Un titolo molto bello che tanti hanno attribuito al suggerimento all’autore di un editor. Consiglio prezioso che ha avuto un riscontro formidabile: più di un milione di copie vendute, un successo memorabile.

Qualcosa che ricorda quello di alcuni anni fa: Va dove ti porta il cuore di Susanna Tamaro, poi trasferito al cinema da Cristina Comencini ma con minore consenso rispetto al libro. Storie di amori e di aspettative, quelle della Tamaro e di Giordano, che evidentemente corrispondono al bisogno dei lettori, variamente qualificati, di trovare qualche risposta, qualche suggestione, qualche spiraglio.

lasolitudinedeinumeriprimi-posterStorie che non hanno poco o nulla in comune con le fiction tv, ubriache di sentimentalismo standard, o come i prototipi o le copie del sentimentalismo lucchettato (alla Federico Moccia, o meglio ai sottoprodotti imitativi) che pare passato di moda. Storie di emozioni nello stesso tempo esplicite e trattenute, alla ricerca di intimità, come voci che arrivano agli occhi del lettore e oggi agli occhi dello spettatore da un al di là rispetto ai rumori in primo piano e di fondo nella società in cui siamo, da cui non possiamo liberarci.

Saverio Costanzo è un regista di trentacinque anni, più grande dello scrittore Giordano, sensibile, attento, affascinato da un linguaggio semplice ma alla ricerca di profondità. Gli hanno proposto il libro e ha accettato, attratto in modo particolare dai personaggi e dalla avventura esistenziale, umanissima, di due ragazzi che non riescono a liberarsi da tragedie che li perseguitano. Eccola. Alice ha avuto un incidente di sci che ha causato un difetto alla gamba. Mattia ha perduto la sorella gemella. Quando si incontrano le esperienze avute che li perseguitano, feriti o dolori che non si rimarginano, potrebbero essere dimenticate in nome di una amicizia in cui si affacciano comuni interessi , curiosità, attrazioni,abbozzi di vita e d’amore. Poi, la scelta di Mattia di andare a lavorare all’estero. Anni di lontananza.

Si ritroveranno, una domanda entra nei loro corpi, nei loro cuori: finirà la solitudine dei numeri premi? Bisogna vedere il film di Costanzo, oltre che magari leggere o rileggere il libro di Giordano. Diversità importanti come le assonanze dentro e a prescindere dalla trama. L’importante è valutare che il non semplice lavoro compiuto dal regista, raffinato e penetrante, ha ben poco da spartire con una versione diretta del romanzo, delle sue atmosfere, dei suoi contenuti.

E’ una sorta di scommessa, giocata con minuzia e sorvegliato talento, che non esita proporre allo spettatore suggestioni a cui non è certo abituato: ad esempio una parte della vicenda “raccontata” con pochi dialoghi, silenzi, musica e soprattutto suggestione. Si avvicina a vincerla, questa difficile scommessa, l’autore che ci ricorda la parte del nostro cinema che usa mezzi sobri e acuti, allamente ritornano sequenze delle opere di Antonioni; non ricalchi, ma ispirazioni colte e rivissute.

Un “horror sentimentale sulla famiglia e sulla sua impossibile emancipazione”, spiega Costanzo. Un horror? Basterà nella sfida con concorrenti agguerriti? A Tarantino la sentenza. Qui possiamo concludere con simpatia per qualità e intelligenza.

Fra i concorrenti, c’è un film Attenberg che si avvicina a “La solitudine dei numeri primi”. Anche in questo caso una doppia solitudine: due ragazze che vivono in una Grecia insolita e poco conosciuta. Athina Rachel Tsangari, che ha studiato cinema in America, ci presenta Marina che a ventitre anni non conosce il sesso e che trova in un’amica di nome Bella colei che cerca di cancellare la paura, e il disgusto, non solo verso il sesso ma verso l’amore. Inizio potente: il bacio tra le ragazze fra profferte e rifiuto, e quindi una lotta a urla e a graffi come tra due fiere nella giungla.

Uno dei motivi della diffidenza di Marina viene dalla visione da bambina dei documentari inglesi di Sir David Attenborough sugli schermi greci con tanto di sottotitoli: gli accoppiamenti fra animali, scene inquietanti, forti, violente. E’ la premessa di una vita di paure e di sottrazioni che avviene in una Grecia senza sole, sotto nuvole cariche di pioggia. Una Grecia che, per immagini,e tecnica di ripresa, ricorda la Parigi della nouvelle vague con le due ragazze che camminano, sfiorando distratti lupi maschi (ragazzi della stessa età) cantando “Tout le garcon set le filles de mon age”. Una canzone, che proprio con quel “tout” sottolinea in modo indiretto la solitudine, ancora una volta.

Update ore 18.45: qui la recensione da Venezia del collega Gabriele C.

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