Venezia 2010: nella mostra del NI irrompe Vallanzasca
Venezia- Diciamolo apertamente: la Mostra è la Mostra del “ni”, ovvero, del politichese, del “cerchiobottismo”. Ventiquattro film in concorso, quattro film italiani, polemiche assurde su Avati no e Celestini sì, fuori intanto quello di Michele Placido e Kim Rossi Stuart, Vallanzasca- Gli angeli del male rimasto fuori concorso dopo un grottesco tiraemolla. Prima di affrontare
Venezia- Diciamolo apertamente: la Mostra è la Mostra del “ni”, ovvero, del politichese, del “cerchiobottismo”. Ventiquattro film in concorso, quattro film italiani, polemiche assurde su Avati no e Celestini sì, fuori intanto quello di Michele Placido e Kim Rossi Stuart, Vallanzasca- Gli angeli del male rimasto fuori concorso dopo un grottesco tiraemolla.
Prima di affrontare il tema, non per mettere le mani, lo assicuro, voglio citare una lettera pubblicata dal “Corriere della sera” in cui Emanuela Piantosi, presidente della Associazione Vittime del Dovere”, ricorda i nomi dei caduti del Dovere per mano di Vallanzasca, criminale la cui storia è finita sul grande schermo e alla Mostra delle vanità, ma anche a volte della qualità: Bruno Lucchesi, Giovanni Ripani, Luigi D’Andrea, Renato Barborini. Agenti, carabinieri, guardie. Quasi tutti giovani. Mi piace ricordare che il regista Placido, anche grande attore, è stato in verde età nella polizia; non credo che non sappia avvertire la sofferenza delle famiglie e, obiettivamente, di tutti coloro che portano la divisa per dovere, e anche per un non ignoto bisogno di lavorare, di vivere,servendoci tutti.
Questa premessa mi è parsa necessaria per sottolineare che il film su Vallanzasca non celebra uno dei banditi più efferati e fanatici della storia del crimine, ma anzi lo presenta in una luce che non lascia equivoci. Una bestia dal volto di bambino. Dal film esce, con chiarezza, a mio avviso, che il bel Renè era, e forse non lo è più (a settant’anni), uno dei mitomani del delitto che si accompagnano a un vizio nazionale: la mitomania che troviamo, a cominciare dalla politica, in ogni settore della nostra vita quotidiana, dalla economia alle tv, alla cultura, al giornalismo, e così via.
Placido si ricorda del cinema che, non qui da noi, ha raccontato personaggi del genere. Noi tutti abbiamo cominciato a capire qualcosa del crimine dal filone gangsteristico americano, i film su Al Capone (un ex emigrante italiano fra i gangster polacchi, irlandesi, ebrei), angeli dalla faccia sporca come recita il titolo di un vecchio film ;e persino da qualche pellicola francese, in cui i banditi portavano cognomi italiani e non solo, anch’essi emigranti. Infine, vogliamo ricordare i mafiosi di Martin Scorzese, tutti casa e delitto?
Modelli più o meno lontani che si ritrovano nel “Vallanzasca” di Placido, a cui Kim Rossi Stuart in mezzo a un gruppo di interpreti ben scelti, offre una interpretazione eccellente, una delle sue migliori. Chissà se Quentin Tarantino, presidente giurato, avrebbe potuto indicarlo per la Coppa Volpi e proclamarlo proclamarlo miglior attore della Mostra? Ecco un’altra domanda figlia dei “ni” del Lido, poca voglia di fare battaglie culturali e artistiche, accontentare tutti e tutto. Insomma, com’è il film? E’ un grande spettacolo. Chi ha visto “Romanzo criminale” può averne una idea.
Qui però lo spettacolo, che scorre fra azione e rapidi lampi di dialogo, costruisce intelligentemente la personalità del mitomane, che non ha tanto la vocazione del rapinatore (cosa che crede lui stesso) quanto la vocazione di mettere d’accordo il lavoro sporco per i soldi con lo sfizio di essere il capo sempre e di rappresentarsi sui giornali, in tv, ovunque. Lo fa come lo fanno i venditori di immagine che incontriamo, senza sangue per fortuna,nelle cronache quotidiane non solo di “nera”.
Il colpo da maestri della sceneggiatura è quello di una intervista a Radio Popolare, in cui il criminale parla di se con una lucida follia non dissimile a quella dei tanti mitomani che ci hanno girato e ci stanno girano intorno.
Il film offre, senza sociologismi imparentati al documento che voglia essere realistico o addirittura neorealistico (una delle vecchie debolezze di Placido regista), percorsi in apparenza secondari e che rivelano il contesto in cui crimine e giustizia si incontrano, nel senso di scaricare il primo nella colpa di carceri in cui il crimine non si sconta ma si esalta. Le immagini della case di pena di San Vittore, Novara, Nuoro, Ariano Irpino, e altre, in cui il bel Sergio dalla ambiguità schifosa porta il suo orrore per unirlo a quello di Francis Turatello ucciso dietro le sbarre; le immagini delle guardie penitenziarie che sono talvolta risucchiate in un vortice, ricevendone tormenti e infamità, nel giro infernale delle violenze.