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Venezia 2011 – Cari Americani, col Pulp rischiate di rompere

A Venezia arriva L’ultimo terrestre, Killer Joe e Faust: cosa ne pensa Italo Moscati?

pubblicato 8 Settembre 2011 aggiornato 1 Agosto 2020 08:34

Le gloriose giornate del tricolore (Crialese, Comencini, Pacinotti) hanno tirato giù la bandiera e adesso si attende il verdetto della giuria. Guai se non vince un film italiano! Ordinano. Già altre volte i magoni sono andati giù e lo spritz o il prosecco non sono serviti a cancellare amarezza e delusione. Seguendo la filosofia del non aspettarsi mai troppo; promettendo domani un primo bilancio (i miei candidati ai premi maggiori), passerei oltre.

Comincerei con un lavoro americano del vecchio William Friedkin, quello di “French Connection” e “L’esorcista”, intitolato Killer Joe che ha chiaramente l’intenzione di conquistare il primato del pulp fiction che per ora spetta a Quentin Tarantino. Una storia trucida di polli umani e di polli arrosto veri. I primi sono i componenti di una sgangherata famiglia allargata. Sono raccolti sotto vari tetti a coltivare parvenze di affetto, e soprattutto vizi, gelosie, tradimenti, sete di denaro, possessioni. I secondi, i polli veri, quelli da spiedo o da rosticceria, hanno un ruolo fondamentale nel film, specie uno, ma non dirò come e perché.

Qui voglio solo premettere, alla vostra visione , le mie reazioni dopo 103’ di pellicola molto ben diretta. Ho retto con pazienza tutta la prima parte che ruota intorno a una assicurazione che fa gola a tutti costoro, ovvero ai polli umani e ad uno spiedo umano che fa alternativamente il poliziotto e il killer che si fa ben pagare. Poi, nell’ultima mezzora mi sono divertito come un bambino che pasticcia con la cioccolata.

L'ultimo_terrestre_POSTER_FILM_GIPIIn questa mezzora avviene una resa dei conti esasperata, tragica, comica (volontariamente e involontariamente), con un finale a sorpresa. Mentre scorreva il tempo affiorava, sempre più prepotente, l’idea pulp fiction di ispirazione tarantiniana. Cose mirabolanti. Agli appassionati di Quentin farà piacere rituffarsi nella pappa a fuoco lento di un maestro dell’horror quotidiano: una serie di invenzioni a carica spettacolare atomica, il tutto nello spazio ristretto di una cucina. Gli spettatori comuni, ignari, innocenti, non va detto del pulp; ciò che vedranno li farà sussultare sulla poltrona.

Dunque: un grande film? Non direi. Ma c’è il piacere di vedere volare via il tempo in un festival in cui le durate sono spesso punitiva. Mi auguro che si possa fare eccezione per Friedkin, illustre personaggio: l’idea tarantiniana sta per essere compromessa da un uso smodato della formula. Sembra che il cinema americano, quello del genere horror, stia correndo il rischio di rompere occhi e timpani, oltre che pazienza, per il ricorso ad un grand-guignol a tutti i costi, ostentato e alla lunga stucchevole. Passi per “Killer Joe”. Si spera che non ci sciupino troppo il giocattolo pulp.

Il cui ricordo rende più agevole sopportare l’effetto del terzo film italiano in concorso L’ultimo terrestre di Pacinotti, fantascienza terrestre che ruota intorno al pianetino di un cameriere imbranato e senza amore che incontrerà alieni e forse, come suggerisce la sinossi, sarà il momento di una sorta di giudizio universale.

Nel terzetto tricolore non scala gradini. In cima continua a restare Terraferma di Emanuele Crialese che è l’opera italiana più piaciuta. A mezza bocca e con mezze speranze. Gli toccherà qualcosa?

In concorso è stato presentato Faust di Aleksandr Sokurov che non si smentisce e prosegue imperterrito a mettere in scena con calma plastica rappresentazioni basate sull’uso dei colori, dal bianco e nero, ai colori pastello; e qui sugli odori, anzi le puzze. Nel riproporre a suo modo la celebre opera di Goethe, il regista ci invita ad aguzzare il naso per restituire lo spettacolo, il senso di un mondo laido e sgradevole in cui Faust non esita a vendere la propria firma ad un sordido diablo con pene sul fondo schiena allo scopo di avere una bellissima Margherita.

Non serviva tapparsi il naso. Meno male. Gli occhi funzionano da metà del film in poi, in una natura che suscita paurosa angoscia i cui si aprono squarci di bellezza potente o delicata. Sukorov ben noto, senza compromessi. In una Mostra all’insegna dei compromessi. Nelle scelte. Nella qualità.

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