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Venezia 2011: da dove vengono i film di Cronenberg, Polanski e persino Madonna?

Editoriale da Venezia di Italo Moscati: Madonna, Polanski e Cronenberg

pubblicato 3 Settembre 2011 aggiornato 1 Agosto 2020 08:47


Com’era bella l’Austria Felix dei tormenti del sesso. Bella bella. A Vienna personaggi come Freud, Jung, Schnitzler e tanti altri. Giornate di sole. Castelli dai giardini trapuntati come eleganti pullover. Specchi d’acqua stirati come redingote. Il maltempo con piogge discrete e silenzi immortali. Dalla vicina Germania altre bellezze di natura e di musica: Wagner che trasferisce tutto l’oro del mondo colto, il pensiero creativo, nelle anime che hanno bisogno di ristoro sublime. E poi: follie, vasche di contenzione, bagni ghiacciati, cinghie, studi solenni e sepolcrali, colpi di frusta su corpi semicoperti quindi più eccitanti, colpi che dal basso arrivano al cuore e soprattutto alla testa. Infine: biblioteche maestose, bacco, tabacco e veneri smunte dai desideri più intimi che vogliono gonfiarsi come le vele di una nave dei pirati negli oceani negati agli ordinary people.

Queste parole mi affiorano dalle dita per il film di David Cronenberg, A Dangerous Method, al quale i media (le tv sono più educande) hanno dedicato tanto spazio per via del groppo di rivelazioni ed emozioni suscitato dal trio psicosomatico Freud, il suo allievo (poi tralignante) Jung e la paziente Sabina che è stata la sua amante. Storia con sfumature che ha generato un romanzo e un’opera teatrale, e adesso un film di grande qualità formale, con attori perfettamente a posto. Mi vengono in mente, al riguardo, due precedenti: Il portiere di notte e Al di là del bene e del male diretti da Liliana Cavani. Temi non dissimili, stile elegante e severo, ottimi interpreti. Sono felice di averli sceneggiati con la regista.

Si tratta di film che fanno “sognare” epoche in cui si preparavano la prima o la seconda guerra mondiale (per “Il portiere di notte” invece il secondo dopoguerra), per via delle suggestioni che offrono: non solo visive ma culturali, artistiche e di costume. Epoche “sognate” e angosciose. Forse stanno tornando di moda, o se non di moda sono al centro dell’attenzione di produttori internazionali con molti soldi, e del pubblico. “Sogni” di perfezione intimamente corrotti da inquietudini chiuse in un mondo senza altre realtà. Intorno ad esse non c’è nulla che assomigli a un muro cadente o sporcato dai fumi di un camino. Tutto sembra perfetto, e non lo è e non lo sarà più.

Potremmo inserire nel novero il film Il discorso del re che ha avuto la scorsa stagione un successo forte (bellissima la versione inglese, penoso o inadeguato il doppiaggio). Come si ricorderà si tratta della vicenda del principe balbuziente che prenderà il posto del fratello Edoardo che rifiuterà la successione al trono per sposare la sua Wally, sgradita a corte.

“Il discorso del re”- sceneggiatura e attori eccellenti- è piaciuto sia per la tecnica che per le interpretazioni ma credo soprattutto per la rappresentazione di quel mondo di cui dicevo: un mondo che non c’è più, in cui un principe si sottopone ad uno notevole sforzo per parlare normalmente e reggere il confronto esigente del popolo che lo ascolta. E diventa così il campione dello spettatore che si gode una vicenda ben ambientata, aristocratica, che noi esseri comuni vediamo come rara, impossibile e nobile. La nobiltà dello spirito più che del rango. Nobiltà che non si vede in giro oggi.

Questo film comincia con la sua storia quando finisce il film di Madonna W.E, in cui una ragazza del presente s’invaghisce della love story tra Edoardo e Wally, e pensa di riviverla. A Madonna la vicenda del principe balbuziente non poteva interessare, meglio, per le sue caratteristiche di star pescare nell’amore reso fiction “sognata”. Ecco, senza ripetermi rispetto al pezzo di ieri, Madonna fa i “sogni” che appartengono alla sua esperienza e al pubblico di massa da cui si aspetta, dopo tanti clamori, di essere adorata. “Sogni di massa”, altro che Freud, Jung, Sabrina: troppo stratosferici, da evitare. Meglio evitare il mal di testa e, insieme il mal di cuore, meglio l’ipnosi (che in “W.E.” si converte in noia).

Infine Polanski. Il suo film, venuto anch’esso da una commedia, forse prova che le parole oggi valgono di più delle immagini stolte,a raffica, poco curate, sensazionalistiche, di tante pellicole sulla contemporaneità. Carnage mostra un ristretto ambiente che la gente frequentatrice per abitudine della Mostra dovrebbe ben conoscere. I suoi personaggi conversano per luoghi comuni e blocchi mentali o di coscienza. Ripetono l’assurdità dei modelli e della loro applicazione nella quotidianità. Voglio dire, esagerando per paradosso, che essi parlano come il colto stracotto pubblico dei festival. Non dicono nulla di originale. Ripetono solo frasi fatte o strafatte (l’abilità della sceneggiatura è renderle risibili) e il political correct che scende dagli schermi del cinema, molto spesso, ma soprattutto dalle tv, anche quelle che si credono furbe ed esenti. I personaggi di “Carnage” vivono a New York ma sono come noi, o noi gli assomigliamo sempre di più.

E direttamente dal Festival:
La recensione di Carnage
E la recensione di W.E.
La recensione di A dangerous method

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