Venezia 2011: Quando la notte viene di giorno e rischia di farti male
Cristina Comencini porta a Venezia il suo film Quando la notte con Filippo Timi e Claudia Pandolfi: il parere di Italo Moscati
Cronaca di un mattino alla Mostra del cinema di Venezia 2011. Sono quasi le 11 al PalaDarsena. Sullo schermo passano le ultime immagini del film Quando la notte di Cristina Comencini che ha origine da un suo recente romanzo. Le immagini non sono finite neanche sul nero dei titoli di coda che un “urlo” soffocato, mormorato di dissenso si mescola ai pochi, centellinati applausi. Sto male, provo dolore. Non scherzo. Conosco da anni Cristina per avere lavorato con il padre, il grande Luigi Comencini, e sono affezionato a lei e alla famiglia, tutta cinematografica.
Avevo sperato fino all’ultimo, seguendo la pellicola, che tutto sarebbe finito al meglio. Invece i quindici-venti minuti finali mi aggrediscono alla testa e al cuore. La storia del film, e del romanzo, viene da una idea nuova e urticante. Cioè, dai patemi, dalla angoscia, dal dubbio, dalla rabbia e dalla depressione che possono cogliere alcune donne sensibili, sensibilissime, quando hanno un figlio. La scoperta può avvenire anche qualche tempo dopo il parto.
Nel film il piccolo Marco piange a dirotto, non dorme la notte, agita e toglie il respiro, oltre che libertà, alla madre Marina che decide di fare con lui una vacanza in montagna. Ma le cose non vanno secondo i suoi piani e i suoi desideri. Nella doppia fatica fisica e psicologica di Marina si inseriscono la vita e i comportamenti, come dire, non sereni di una guida alpina che ha affittato la casa per la vacanza, Manfred.
Non vado oltre. Mi fermo qui nel raccontare la fatidica trama. Gli echi dentro la storia sono tanti (si potrebbe ricordare Cogne e quella madre finita in tribunale, in tanta tv e infine in carcere: la morte di un bambino in quella landa diventata ahinoi famosa per questi fatti); ma si potrebbe andare al problema vero di cui dicevo: una madre e la “sua” responsabilità totale di crescere un figlio, in assenza a volte totale di un un padre che non c’è come figura o declina; si potrebbe aggiungere la difficoltà nella nostra società in cui chi nasce conta poco o dà fastidio (si fanno sempre meno figli), difficoltà di tenere incontro di disagi profondi a cui non basta per essere curati una scuola materna in più o una tata o una badante. Il problema è più ampio, profondo e importante.
La Comencini lo sa, essendo madre più volte. Ma forse non lo sa il cinema che è fatto da uomini che impongono, o accettano, un cinema di uomini per donne e uomini. Non lo sa un cinema che non sceglie una strada rigorosa, in cui il solo sollevare il problema possa diventare un modo di proporre una “rivolta” seria per scuotere chi non capisce, maschi e persino femmine. Non lo sa un cinema che resta ambiguo. In cui si insinua la piovra della fiction televisiva che deve architettare volute benpensanti in cui “devono” fare capolino, addirittura “irrompere”, aspetti d’amore: attrazione, bisogno, paura e bisogno che sconfinano nell’amore e nel sesso.
Tutto questo accade nella parte finale del film. Non che le tracce non siano presenti nella storia di città e di montagna. Anzi, ci sono, eccome. Riguardano la sceneggiatura, i tratti dei protagonisti, la voglia di sconfinare da cronache dure alla panacea dei sentimenti, ai ritorni che sono sogni e che cercano la realtà nelle immagini (da film) che ci proiettiamo nella sala privatissima della nostra mente, tra appunto sogni e incubi.
La notte che ci propone il film vive di giorno e la sua pasta è costituita da piccole soluzioni narrative che creano un’atmosfera equivoca e contraddittoria. Il grande tema o problema scelto dal film scivola sulle pendici dei risultati come una invisibile valanga che travolge non solo la storia, e i suoi personaggi, ma noi, soprattutto noi spettatori che siamo colpiti dalle intenzioni e restiamo ad occhi, a mani vuote.
Non so. Non ho suggerimenti. Ma, lo dico sapendo che non conta niente, solo un’opinione mi sia concessa: esistono i tagli nel montaggio. Fateli. Pochi minuti, nel finale, possono bastare. Non solo per salvare il film, che lo meriterebbe per i suoi scopi, la regia, la produzione; bensì per salvare noi, il pubblico. La Mostra ha i denti da pescecane, nel suo cinismo. Lo si dovrebbe sapere. Chi li dimentica è il vero illuso.