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Venezia 2012 – Pietà: recensione in anteprima del film di Kim Ki-duk

Kim Ki-duk in forma smagliante: dopo la crisi e la depressione, il regista coreano presenta in concorso a Venezia 69 una delle sue opere più forti. Leggi la recensione.

pubblicato 4 Settembre 2012 aggiornato 31 Luglio 2020 22:45

Ingaggiato da un usuraio, un uomo ne riscuote i crediti, minacciando senza pietà i debitori. Senza famiglia, e quindi con nulla da perdere, l’uomo spietato vive senza tenere in nessuna considerazione il dolore che provoca a moltissime persone. Un giorno, gli si presenta una donna sostenendo di essere sua madre. Dapprima la respinge con freddezza, ma piano piano la accetta e decide di abbandonare quel lavoro crudele per condurre una vita normale. Ma la madre viene rapita all’improvviso…

C’era una volta un regista che era uno dei paladini dei cinefili, salito alla ribalta anche grazie al passaparola on line. Kim Ki-duk ha trovato la sua massima fortuna nella prima metà degli anni 2000, periodo in cui è stato amato da un pubblico di giovani, così entusiasti che hanno voluto riscoprire anche i suoi lavori precedenti, ovviamente inediti in sala. Poi, ad un certo punto, la fortuna di Kim è iniziata a scemare, nel momento in cui le sue pellicole hanno cominciato a far discutere animatamente sotto il profilo artistico.

Prima fu L’arco, poi Time. Ci fu quindi un momento in cui Kim pareva essere ritornato ad essere quella figura centrale del cinema orientale per gli appassionati, grazie a Soffio. Infine è arrivato Dream: un’esperienza spaventosa, traumatica, che ha segnato il regista a causa di un incidente che ha coinvolto la protagonista del film. Da quel momento, Kim non è stato più lo stesso, ed ha passato un periodo di depressione fortissima, raccontata nel documentario Arirang. Kim ha girato in fretta e furia un nuovo lungometraggio, Amen, che avrebbe dovuto rimetterlo in carreggiata. Il risultato non lo ha convinto, tant’è che ha ritirato il film definitivamente…


Stupisce, quindi, questo Pieta, alla luce del declino artistico che ha coinvolto Kim da L’arco in poi, e alla luce degli eventi personali a cui abbiamo fatto riferimento prima. Eppure siamo felicissimi di poterlo annunciare: ragazzi, Kim è tornato. Ed è tornato alla grande. Pieta è un film che innanzitutto si inserisce perfettamente in una certa tradizione del cinema coreano, quello che molti identificano con alcuni film di Park Chan-wook; è poi un film che, per atmosfera, tematiche e “sporcizia”, ricorda il primo Kim, piuttosto che gli ultimi lavori.

Ma, cosa importante, è un film unico, in cui c’è un’energia che dev’essere scaturita naturalmente durante le riprese e la produzione. Pieta è un film sentitissimo, talmente sentito da essere un progetto a suo modo “a rischio”: bisogna invece togliersi il cappello di fronte ad un risultato del genere, perché la pellicola è travolgente, girata benissimo, ed anche tenuta sotto controllo. Kim torna ad essere il maestro che era anche sotto questo aspetto: se Pieta è un film “furioso”, è allo stesso tempo un film delicato e straziante, curato nella forma e mai lasciato al caso.

“Il 18° film di Kim Ki-duk” (come recita una delle prime didascalie) incomincia con una dichiarazione d’intenti: non sarà certo una passeggiata… Un uomo si avvolge attorno al collo un gancio d’acciaio, che mette poi in funzione con un macchinario. Vediamo che viene sollevato dalla sedia su cui era seduto. Non sappiamo ancora che fine farà, ma non è difficile capire che si tratta di un suicidio. Successivamente vediamo per la prima volta Lee Kang-do, il nostro protagonista, addormentato a letto, dove, durante il sonno, imita l’atto sessuale strofindandosi con un cuscino.

Lee ci viene presentato come un uomo freddissimo, pericoloso, temibile, un personaggio ancora più inquietante e ferreo del protagonista di Bad Guy. In bagno raccoglie quelle che sembrano delle interiora di animale e le butta via. Appesa in casa (disordinatissima!) ha un dipinto di una donna nuda, appeso al muro con un coltello: proprio quel coltello che prende ogni volta che va via di casa per svolgere il suo lavoro, ovvero riscuotere i soldi di chi non ha pagato un prestito, minacciandoli.

Difficilmente però l’uomo potrà riscuotere dei soldi immediatamente, visto che gli interessi si sono magicamente moltiplicati di dieci volte. Quindi Lee va dai clienti per renderli storpi, affinché incassino i soldi dell’assicurazione e possano restituire con questi la somma di denaro che avevano chiesto in prestito. Non si pone problemi a mutilarli di fronte alle mogli o alle madri, anzi. Svolge con freddezza il suo compito, e sembra pure godere della paura provata dagli uomini nei momenti che precedono la tortura.

Poi un giorno arriva lei: una donna che, silenziosa, lo segue fino a casa, entra dentro ed inizia a lavare i piatti e riordinare la casa. Dice di essere sua madre. “Mi spiace averti abbandonato”: Lee non le crede. “Non dire il mio nome! Io non ho nessuno”, e chi non ha nessuno non ha nulla da perdere. Ma visto che la donna insiste, Lee vuole metterla alla prova, e queste “prove” saranno umilianti e terribili… Piano piano, però, tra i due si instaura una relazione davvero sincera e sentita, tant’è che Lee le porta a casa un regalo e lei lo attende con la cena pronta.

Quello di Kim è sempre stato un cinema di relazioni “oltre”, completamente fuori dagli schemi. Pieta segue questo percorso: Kim descrive il rapporto madre-figlio in maniera “spudorata”; si tratta di un rapporto in cui una madre pentita torna dopo 30’anni per ricominciare a vivere con il figlio, un uomo violento fino alla nausea, che non si fa problemi a schiaffeggiarla, chiamarla con i peggiori appellativi o andare addirittura oltre la “morale comune”. Eppure la donna resiste, e in un film di Kim non potrebbe essere altrimenti: i personaggi coinvolti nel rapporto sono sempre diversissimi, si odiano, si amano, litigano e vorrebbero uccidersi, ma poi, per qualche umanissimo motivo, scatta sempre l’empatia reciproca.

A Kim bastano una serie di sguardi o una canzone cantata al telefono per accendere la tenerezza di questo rapporto scomodo e difficile da descrivere, inserito in un contesto complicato ancora di più dal potere dei soldi. “Che cos’è il denaro?”, si chiede Lee ad alta voce; “è la fine delle cose”, le risponde la madre. La fine di tutto, nel caso specifico di Pieta, che tende inesorabilmente verso una conclusione nerissima; così come è inesorabile il cambiamento radicale della cittadina in cui è ambientato il film. “Tra una decina d’anni ci saranno solo grattacieli”: potere e dolori del dio denaro…

Kim si riappropria con Pieta del suo stile, attraverso un uso squisito dei mezzi cinematografici: basta vedere come muove la macchina da presa in alcune occasioni, come nel momento in cui un personaggio viene schiaffeggiato e noi ne vediamo la soggettiva. Non si scorda nemmeno di stemperare il clima nero della pellicola con tocchi di sublime ironia, spesso grottesca (gli occhiali tondi!), ed avvolge il film con una fotografia curatissima, ricca di chiaro-scuri, e con una musica che è fondamentale come collante emotivo.

Sorprende l’uso delle ambientazioni, visto anche che alcune sembrano uscire direttamente da Address Unknown, quasi Kim ci stesse dicendo che è tornato, e fa sul serio come una volta. E lo ribadiamo anche noi, perché di Pietà faremo tanta fatica a dimenticarcene. Non si possono scordare quei pianti lunghi e strazianti di una donna ferita nel profondo, quell’albero che funziona come una tomba, o quel maglione… E non si può scordare l’ultimo gesto: che ha un sapore rivoluzionario e definitivo, ma che non può non lasciare una scia di sangue lunghissima. Bentornato, Kim.

Voto di Gabriele: 10
Voto di Antonio: 8

Pietà (Pieta, Corea del Sud, 2012, drammatico) di Ki-duk Kim; con Cho Min-soo, Lee Jung-jin. Trailer originale e quello italiano. Uscita in sala il 14 settembre 2012.