Venezia 2015, Behemoth: recensione in anteprima del film di Zhao Liang
Come cambia l’uomo dinanzi alla modernità incalzante? La risposta di Zhao Liang è impietosa, non facile, dunque estremamente urgente e necessaria. Behemoth è uno sci-fi camuffato da documentario politico, o viceversa, che costringe ad interrogarsi su concetti capitali come sviluppo e mutazione. Perché la sua vera preoccupazione è l’uomo prima ancora che il suo ambiente
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I minatori, racconta Zhao Liang, regista di Behemoth, si vantano perché per loro spostare le montagne è un gioco da ragazzi. «In verità vi dico che se aveste tanta fede quanto a un granello di senapa, potreste dire a questo monte: – passa da qui a là! – e passerebbe; e niente vi sarebbe impossibile». Sono parole di Cristo. Peccato che nel caso in questione non è la fede a spostare le montagne, bensì l’esplosivo, corroborato dal sangue e sudore di persone a cui non resta molto tempo nel corso della giornata per dedicarsi ai bisogni dello spirito.
Siamo in Mongolia. La potente apertura di Behemoth è programmatica circa quello che stiamo per vedere nella prossima ora e mezza circa: voragini che si aprono su delle zone scoscese, fatte saltare in aria. Non si capisce perché. È l’ingresso in una dimensione altra, un mondo fatto di rovine, lontano dal nostro. Si direbbe una colonia, scarsamente abitata, dove si evince che un tempo ci fosse altro. Quello di Zhao Liang è un film di opposti, ritratti con un’incisività contemplativa rara. Che peraltro tutto tiene: corpi, macchine, paesaggio. Natura ed artificio, la cui alternanza c’informa meglio di qualunque saggio verso quale direzione stia andando il XXI secolo.
Behemoth è un film di una bellezza senza tempo, perciò destabilizzante, foriera di turbamenti che passano dallo stomaco poiché il più delle volte certe immagini mal si prestano ad essere risistemate razionalmente. È cinema all’ennesima potenza, senza compromessi, eppure non punitivo, repellente. Né tantomeno si tratta di soli quadri, perché il regista cinese segue il movimento all’interno di un ecosistema in cui la stasi semplicemente non è contemplata. Non lo è perché Behemoth, la vorace bestia che inghiotte ogni cosa e che non è mai sazia, vuole così. È la modernità, il cosiddetto progresso, che tale non è.
Più ci ragioniamo è più l’opera di Zhao Liang ci appare in tutta la sua audacia; non solo tratta un argomento su cui non ci s’interroga abbastanza (bene), ma lo fa integrando la poesia. Facendo di Behemoth stesso una gigantesca metafora, una di quelle che però funziona a meraviglia, facendo ricredere persino il più ostinato dei detrattori. In quell’area del mondo centinaia di persone lavorano in condizioni disumane per accumulare acciaio. In una delle scene viene inquadrata in dettaglio la gola di uno di questi operai, addosso una sostanza densa e viscosa che sembra sudore e forse lo è. Si tratta di una delle rare inquadrature strette dopo che la macchina da presa abbraccia montagne, strade, prati. Dal generale al particolare, perché questa storia non si limita a parlarci di ambiente, bensì dell’uomo.
Dove c’è, imbestialito, reso selvaggio da quello sviluppo che invece doveva liberarlo dallo «stato primitivo», lo stesso che per secoli lo ha ridotto al minimo delle sue potenzialità, si diceva. Dove non c’è, se ne avverte l’assenza, il solo posto dove può regnare l’ ordine. Zhao Liang adotta il registro della Divina Commedia, che è più terrena che altro, tanto è inserita nell’aldiquà. Inferno, Purgatorio e Paradiso sono tre luoghi fisici, diversi per forma e per colore.
L’Inferno è rosso come la lava incandescente che queste creature incappucciate raccolgono e smistano passando intere giornate a scontare pene che non hanno nulla a che vedere col Peccato Originale; in veri e propri forni che li abbrustoliscono poco alla volta. Il Purgatorio vira sul grigio e, al contrario di quanto si è soliti credere, non è una passeggiata: uomini macchiati irrimediabilmente, pieni di lividi, calli e addirittura buchi, abbarbicati ai propri letti o a delle barelle, con accanto delle bombole divenute estensione del loro stesso corpo. Una sofferenza che, a differenza di quella del Purgatorio, non garantisce la salvezza. Infine c’è l’azzurro Paradiso; un colore spettrale, adatto a dipingere questa località di fantasmi.
Non c’è compiacimento, né prurito nel mostrarci le dinamiche di questi posti, il cui funzionamento non ci viene in nessun caso spiegato. Zhao Liang affida tutto, ma proprio tutto alle immagini, dando peraltro un senso al fino a ieri prematuro 4K, la cui nitidezza risulta decisiva per cogliere la complessità e l’intensità di certi scorci. Senza mai sfociare nel mero esercizio, perché in nessun caso un quadro in Behemoth è bello per l’esclusivo piacere di appagare un vago senso estetico. La radicale bellezza di ciò che osserviamo sta nella durezza della verità a cui rimandano gli oggetti della visione, che si tratti di uno scooter, di un macchinario, una pecora, la gamba di una donna mentre si fa un pediluvio o una colorata panoramica.
La storia di queste persone dimenticate in un angolo talmente remoto della Terra che sembra risalire a un’altra epoca, illustra meglio di tante altre il mondo in cui viviamo. Minatori ed operai in genere, con rispettive famiglie, altro non sono che parti di un ingranaggio che li sovrasta e li fagocita. Tutti quei morti e quei vivi ad un passo dalla morte, attaccati ai loro respiratori, servono a costruire la città di Ordos, che in mongolo significa palazzi, con particolare riferimento a quelli celesti, dunque il Paradiso. Quello che però (di nuovo) sta sulla Terra, disabitato, disadorno, vuoto: una città nuova di zecca, con numerosi grattacieli residenziali dove non abita alcuno.
Zhao Liang gira un documentario politico nelle intenzioni, che riguarda la Cina e lei soltanto, finendo però con lo strutturarne pure un altro, non meno urgente, sulla svolta antropologica che riguarda l’intero globo. Dunque l’uomo, il suo devastante allontanamento da sé stesso man mano che perde il contatto non solo con la natura, col proprio lavoro, ma con la realtà. Ed il valore aggiunto sta proprio in questo: che mentre ne scriviamo sembra si stia alludendo a discorsi vecchi di due secoli, intrisi di utopia e buone intenzioni; viceversa Behemoth tratta questioni come la politica, l’economia, lo sviluppo come parti e non tutto. Il tutto è l’uomo, o meglio, il suo destino. L’uomo, sempre lui: il solo in grado di costruirsi il peggiore degli inferni ed avere l’ardire di crederlo il migliore dei paradisi.
[rating title=”Voto di Antonio” value=”9″ layout=”left”]
[rating title=”Voto di Federico” value=”8″ layout=”left”]
Behemoth (Beixi moshuo, Cina, 2015), di Zhao Liang.