Venezia 2015, Equals: recensione in anteprima
In un futuro nel quale le persone capaci di sperimentare emozioni vengono considerate malate, due giovani trovano l’amore. Passo falso di Drake Doremus con il suo sci-fi romantico Equals
E Drake Doremus si lancia nella distopia. In un mondo oltremodo ovattato, in cui tutti rispettano spontaneamente delle file immaginarie, quasi facessero parte di una coreografia, il bianco è il colore predominante. Gli abiti sono bianchi, i muri, le pareti, le strade, gli strumenti elettronici e non. Tutto. Una neutralità cromatica che è frutto di un minimalismo funzionale sostanzialmente a livello scenografico, oltre che talmente abbagliante da spiccare. E quando una cosa si nota troppo può voler dire che non sta assolvendo appieno al propria finalità.
Silas (Nicholas Hoult) e Nia (Kristen Stewart) lavorano alla Atom; non si sa bene di cosa si occupi l’azienda, ammesso che in questo futuro il termine in questione abbia ancora un senso, ma le loro mansioni hanno a che vedere con l’ambito della comunicazione: lei scrive, lui traduce le parole in immagini. Non escludiamo vi sia un significato dietro tali incarichi, uno strato ulteriore che si aggiunge a quello più immediato, ma forse non è nemmeno così importante. L’ambiente è contraddistinto da un ordine insolito, nonché una calma del tutto innaturale. Tutto procede secondo dei ritmi pressoché codificati, che coprono l’intera giornata di ciascun abitante del luogo. Questa la premessa.
Il soggetto di Equals è interessante, ché di atmosfere orwelliane non se ne ha mai abbastanza (quasi). Equals però è innocuo, tutt’altro che incisivo nel suo tentativo di unire una storia romantica ad un contesto sci-fi con sottotesto à la Grande Fratello. Non uno degli elementi di film di Doremus regge, crollando sotto il peso di una piega che a un certo punto diventa per giunta smielata. Che sono tutti quei dettagli sulle labbra di Nia? In generale la regia si mostra inconsistente, il cui unico “guizzo” sta nel passare dalle inquadrature geometriche delle prime battute alla macchina a mano con inquadrature strettissime per tutto il resto del film. Una misura che avrà pure le sue ragioni, ma che in questo suo rifiuto di qualsivoglia estetismo finisce con lo svilire ed appesantire lo sviluppo di una trama che non decolla mai, se non per un minuto esatto dopo circa settantacinque minuti.
Doremus si appropria inspiegabilmente del formato teen-movie distopico tanto in voga negli ultimi anni, integrando quel pizzico di arty che, lungi dal nobilitare l’operazione, ne peggiora l’esito. Se da un lato l’inespressività dei due protagonisti, ma principalmente la Stewart, trovi fondamento in un regime che ha reso le persone delle macchine incapaci di provare emozioni, il passaggio alla fase successiva denota delle mancanze che prescindono dalla scrittura. Esiste infatti una malattia denominata SOS, il cui decorso prevede quattro stadi: nel primo si avvertono dei cali di concentrazione, nel secondo si cominciano a sperimentare sensazioni quali paura e confusione, via filato sino al quarto, il cui epilogo è il suicidio.
Probabilmente non aiutano nemmeno le già citate location, il cui utilizzo appiattisce ulteriormente questa storia d’amore dai risvolti vagamente scespiriani, ma in realtà dalle dinamiche farraginose. Tappeto musicale notevole ma onnipresente, e quando non c’è la colonna sonora sono i due innamorati ad ansimare come solo in certi romance movie o drammoni, dove il regista è capace di tirarti fuori un amplesso di dieci minuti, duranti i quali avverti per lo più disagio, e non certo per pudore.
D’altra parte è questo il tema che più appassiona il regista di Like Crazy, che fino a Breath In era però riuscito a bilanciare la sua propensione al genere romantico con un’intensità drammatica dignitosa, ma soprattutto credibile. A ‘sto giro, nel cercare di coniugare più generi, a Doremus viene fuori una poltiglia per lo più informe, che non funziona né in termini di fantascienza né in relazione al corteggiamento e successivo innamoramento dei due, a dire il vero banalotto. Poiché se in un passaggio chiave del film, quando Nia se ne esce con una rivelazione dall’impatto notevole su ciò che avviene da lì in avanti, allo spettatore scappa una risata, allora c’è qualcosa che non va.
Incastrato tra queste due dimensioni, Equals gira attorno a sé stesso senza mai andare davvero da alcuna parte. Scialbo l’approccio, ancor di più la commistione di elementi tratti da più generi; infine totalmente decentrato il processo di “nobilitazione”, giusto per renderlo materiale da Festival insomma. Potrebbe essere questo uno dei problemi più rilevanti, ossia che Doremus non è un autore in senso stretto, perciò si dimostra ancora inadatto ad amalgamare degli ingredienti così eterogenei sulla base di una prospettiva chiara, riconoscibile, dunque interessante.
Per non parlare delle seppur presenti implicazioni in termini di messaggio, ché da un’analisi di questo tipo il film ne uscirebbe ancora più malconcio. A questo punto, tanto vale pompare il tutto di effetti speciali e consegnarsi al target di riferimento (gli adolescenti) senza troppi fronzoli. Magari dando vita a una trilogia. Altri l’hanno fatto e non gli è andata poi così male.
[rating title=”Voto di Antonio” value=”3″ layout=”left”]
[rating title=”Voto di Federico” value=”4.5″ layout=”left”]
[rating title=”Voto di Gabriele” value=”3″ layout=”left”]
Equals (USA, 2015) di Drake Doremus. Con Kristen Stewart, Nicholas Hoult, Guy Pearce, Jacki Weaver, Kate Lyn Sheil, Aurora Perrineau, Claudia Kim, Bel Powley, Toby Huss, Rebecca Hazlewood, David Selby, Rizwan Manji e Scott Lawrence.