Venezia 2015, In Jackson Heights: recensione in anteprima del film di Frederick Wiseman
Nove settimane di riprese, dieci mesi di montaggio per ricostruire la vita di uno dei quartieri più pittoreschi del circondario di New York. In Jackson Heights è un dossier per immagini che potrebbe continuare all’infinito, coi suoi personaggi, i suoi riti e le sue miserie. Una privilegiata finestra sul mondo, quella del maestro Frederick Wiseman
Siamo in una sinagoga. Qui la comunità LGBT della zona è stata accolta anni or sono, tanto che questo è a conti fatti il luogo di ritrovo di coloro che ne fanno parte. Si discute se valga la pena spostarsi altrove o meno: «nulla in contrario con Kew Gardens (era Kew Gardens?, ndr.), non fraintendetemi; brava gente, bel posto. Solo, non è casa nostra». In un altro contesto, una donna messicana racconta ad altri latinos le peripezie della figlia per oltrepassare la frontiera; due settimane senza né acqua né cibo. Un inferno. Ma alla fine ce l’ha fatta, malgrado i cosiddetti coyotes. A chi invece vive e lavora qui da vent’anni si materializza davanti una bestia paurosa, ovvero il B.I.D. (Business Improvement District); per farla breve, i proprietari dei locali intendono alzare l’affitto, ma poiché gli affari non sono vanno più come ai bei tempi, l’orizzonte più nitido è lo sfratto.
In Jackson Heights non segue alcun spartito, solo un flusso di esperienze che si susseguono senza un’apparente continuità, che però c’è. Tutto concorre a descrivere la vita di questo quartiere, novella Babilonia del XXI secolo, dove c’è il mondo e c’è in abbondanza. Oltre centosessanta le lingue e i dialetti che lì si parlano, con una predominanza dello spagnolo. Perché questa è anzitutto terra di latinos, ossia ad alta densità di sud americani, che nel corso degli ultimi venti/trent’anni hanno formato una notevole comunità.
Comunità, appunto. In Jackson Heights è una finestra sul mondo dal cui davanzale non vorresti muoverti se solo osservarne la vita non impedisse a ciascuno di noi di vivere la propria. E perciò tutto quello che ci vedi lì dentro, esasperato o meno, è ciò che ritrovi dovunque; e dovunque, in quest’epoca, si avverte un potente desiderio di aggregazione, di vicinanza, tale come forse non lo si è mai sperimentato in precedenza. Interessi o bisogni diventano l’unico, essenziale discrimine per stare insieme, dandosi un obiettivo comune. In alcuni casi né va della stessa sopravvivenza; capite fino a che punto “fare gruppo” sia importante, anche a costo di liquefarsi al suo interno.
Ora stiamo ascoltando una novantottenne enumerare i propri acciacchi: «non fosse per quel maledetto piede!». Accanto a lei un’altra signora, meno anziana ma su con l’età, col suo inglese incerto domanda quale sia il segreto, l’elisir di lunga vita: «non l’ho ancora scoperto, ma il giorno che ci riuscirò te lo verrò a dire». Il quasi secolo di esperienza ha insegnato alla donna in questione che il tempo per dissimulare e dissimularsi è in ogni caso perso, perciò non esita a rivelare di essere rimasta sola, abbandonata, e che ha smesso di essere felice da quando le è morto il marito: «non ho nessuno, giusto qualche badante. Per questo pago duemila dollari a settimana… per avere qualcuno che mi stia ad ascoltare». Lo dice sorridendo.
L’esercizio La Rosa de Guadalupe, invece, tratta oggettistica devozionale dai tratti naif, di quella fede dei semplici intrisa di paganesimo e cattivo gusto, ma non per questo meno sentita, anzi. Statue coloratissime della Vergine Maria, di Nostro Signore, ma anche monili e chincaglieria svariata. I proprietari sono ispanici, Messico presumibilmente, così come lo sono coloro che portano avanti una sorta di centro estetico per cani (in questo caso trattasi di colombiani). Non solo pedicure per barboncini ma anche magliette delle nazionali su misura, quanto basta perché facendo la pipì non le bagnino. Non so chi siano queste ragazze che apprendono la danza del ventre ma si vede che stanno ancora imparando; guarda invece quei colombiani che festeggiano il passaggio del turno con l’Uruguay… tale è la foga che alcuni si fanno arrestare. Uno c’ha pure il volto coperto di sangue, mentre viene trascinato da due agenti.
Osservando qualunque cosa filmi e monti Frederick Wiseman tutto ti sembra così naturale, quasi “facile”. Ma poi tieni gli occhi incollati un altro po’ e t’accorgi che ciò che fa questo cineasta è una delle cose più difficili al mondo, di sicuro una delle più difficili per i cineasti: ricostruire la realtà, non crearla. Sembra più facile la prima, ma al solo pensiero della scomposizione e ricomposizione dei frammenti viene la febbre, tanto che verrebbe da credere (anche qui non del tutto a torto ma neanche a ragione) che la messa in scena e la successiva strutturazione in un film di pura (!) finzione sia roba da principianti. Wiseman ha il raro dono di mimetizzarsi, al tempo stesso penetrando l’ecosistema che di volta in volta studia e mostra con occhio chirurgico.
Un transessuale si lamenta del trattamento ricevuto in un locale, dove si è sentito discriminato dalla cameriera. Un corteo di attivisti è lì a gridare che basta più, loro esistono e pretendono rispetto. Che è in fondo una delle ragioni per cui ogni anno si tiene un Pride piuttosto particolare, anche e soprattutto in ricordo di una persona che anni addietro fu uccisa perché omosessuale. Nel frattempo in una Chiesa il parroco tiene il suo sermone; si vede che è uno di quelli benintenzionati, oltre che avvezzo all’attenzione dei suoi parrocchiani. Ricorda che la droga non è altro che la risposta sbagliata a una domanda giusta, perché dà un sollievo temporaneo. E si arriva all’esortazione circa il seguire la volontà di Dio: e chissà se il sacerdote ci crede davvero al fatto che la gente si sforzi di capire cosa vuole Dio per ciascuno di loro.
Un po’ prima una signora sulla quarantina, rotondetta, chiede ad un gruppo di volontarie cristiane chine a raccogliere cartacce dal marciapiede di mettersi in cerchio e pregare per il padre malato che di lì a poco andrà a trovare. Si prega e ci si abbraccia, e Dio sia lodato perché i suoi la salvezza l’hanno già ottenuta in base a una promessa, non alla sforzo velleitario di chi vorrebbe “sudarsela”. Toh, guarda chi c’è in quello scantinato! È un simpatico nord-africano (o per lo meno, parla arabo e francese) che segue degli aspiranti tassisti: nepalesi, bengalesi, indiani e via discorrendo. Ha un metodo alquanto insolito ma probabilmente efficace: parlando un inglese comprensibile anche ai meno ferrati, propone e ripete strane associazioni per insegnare che sì, il passaggio dai tunnel a Nuova York è sempre a pagamento; e che no, nei ponti non sempre s’ha sborsare per il pedaggio – ché tanto, tra l’altro, è pure a carico del cliente passeggero. Dipende. Ma soprattutto, stampate a mente i punti cardinali: Nord, Sud, Ovest, Est. Avete difficoltà? Non importa, basta che vi ricordiate l’immancabile monito: Never Ever Smoke Weed (mai farsi le canne). North, East, South, West.
In Jackson Heights è l’ennesima pietra tombale sul «sogno americano™»; ma essendo questo quartiere il mondo, diciamo allora che lo è in relazione al «sogno occidentale», senza trademark. Lo dice quel signore alla fine, quello che, da imbianchino, si è reinventato nel settore delle pulizie: «la mia impressione, ma è quello che sento io eh, non voglio mortificare le vostre esperienze, è che in questo Paese hai un sacco di libertà. Anche quella di essere maltrattato e derubato sul lavoro». Jackson Heights, io non ti conosco, e non sono sicuro che la cosa mi dispiaccia. Eppure non mi spiego la nostalgia che già ho di te.
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