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Venezia 2016, Une vie: recensione del film di Stéphane Brizé

Ancora un romanzo di Guy de Maupassant, la cui trasposizione ha però avuto a priori più fortuna rispetto ad altre recenti. Ci pensa Stéphane Brizé, che adatta allo schermo Une vie, ambientato nella Normandia di inizio ‘800.

pubblicato 6 Settembre 2016 aggiornato 30 Luglio 2020 06:06

Un film sulla disillusione, Une vie, sul cambio di paradigma, peculiarità che lo rendono vicino a noi e alla nostra epoca. Jeanne (Judith Chemla) è figlia di un ricco possidente e conduce una vita spensierata; Une vie si apre su una scena in cui padre e figlia coltivano il piccolo orto di una delle tante fattorie che possiedono. Una ricchezza che significava però non soltanto stabilità ma ancora di più status, in una Francia che ha da poco conosciuto la Rivoluzione, con tutto ciò che ne consegue per il cascame aristocratico del vecchio regime.

Maupassant nei suoi romanzi spesso e volentieri si concentra con particolare attenzione su questi personaggi in cerca di una posizione, precursori dei più recenti arrampicatori sociali. Una vie però è visto dalla prospettiva di una donna che certi meccanismi li subisce, pagando a caro prezzo le mortificanti dinamiche di un mondo che è cambiato dalla sera alla mattina.

Infatti il film attraversa buona parte della vita di Jeanne, dalla giovinezza, poco prima di prendere marito, fino quasi alla vecchiaia. Di mezzo poche, pochissime gioie e tanti dolori. In certi casi la mole di sfortune che si trova ad affrontare la protagonista assumono un tono involontariamente grottesco, come nel caso del figlio che ha studiato dai preti ma che una volta uscito non ne azzecca una e sta sempre lì a chiedere soldi alla madre, alla quale in pratica scrive solo per questo.

Una storia però che si regge quasi interamente sulle spalle di Jeanne, dunque della Chemla. Come ne La legge del mercato, Brizé adopera lo sfondo per mettere in risalto un personaggio, non viceversa. D’altronde in entrambi i casi si parla di contesti in galoppante decadenza. Non è infatti casuale la scelta del formato, un 4/3 fatto di inquadrature strette, macchina a mano, che seguono la protagonista il più delle volte. Ed ancora una volta ci si attarda su come un singolo possa o meno fronteggiare l’ambiente che muta in modi che non riesce affatto a comprendere. Una cosa è quanto emerge dalla reazione di Thierry (Vincent Lindon), altro è quanto avviene a Jeanne.

Quest’ultima è una donna che ama, e come sempre quando le donne amano succede che lo facciano per davvero. Incline al perdono, più si accolla contrarietà e sfortune, più ne subisce. I più cinici potrebbero rispondere che chi è causa del proprio male pianga sé stesso, e di certo Jeanne non è esente da responsabilità. Eppure quella sua fragilità è anche la sua forza, il suo rifugio. Anche quando non se ne rende conto e tiene botta senza rimuginarci sopra.

Il racconto è tarato su questa capacità di sopportazione, ed alla fine infatti “resta” chi ha più amato, non già il più furbo o il più intelligente. In certi passaggi non si può fare a meno di incazzarsi con Jeanne, e si vorrebbe entrare là dentro per darle uno strattone così da risvegliarla dal torpore. Perché lei è uno di quei personaggi che subiscono gli eventi, dai quali si lascia trascinare senza opporre alcuna forza se non, appunto… l’amore. In una donna tutto ciò è semplicemente sublime, ed è raro riuscire a trasmettere certa grazia nella disgrazia.

Ma d’altra parte Brizé sceglie una storia che, alla luce de La legge del mercato, gli si addice, in cui non mancano forzature o quantomeno semplificazioni, che si notano ma che ad ogni buon conto mai compromettono il quadro generale. Fotografia sublime, “sporcata” da riprese dal taglio documentaristico, l’incedere del racconto di Une vie è agevole e scevro di qualsivoglia enfasi, anche laddove si presterebbe. E tra le scene che restano, scuotendo per più di una ragione, vi è senz’altro quella in cui una sorta di commercialista dell’epoca illustra a Jeanne la sua situazione economica: siamo a metà ‘800 ma il circolo vizioso è sempre lo stesso, oggi come allora.

Une vie è un film imperfetto ma struggente, universale in quanto al di là del tempo e del luogo, riportando eventi e situazioni con cui grossomodo a chiunque è possibile identificarsi. Con una Judith Chemla che incarna molto bene gli aspetti pregnanti del suo personaggio: mesto, malinconico, debole e dolce. E ancora una volta è un’azzeccata scelta di cast a salvare Brizé, che ha però il merito non indifferente di indovinare senza riserva alcuna la persona a cui affidare il ruolo principale.

[rating title=”Voto di Antonio” value=”7″ layout=”left”]

Une vie (Francia/Belgio, 2016) di Stéphane Brizé. Con Judith Chemla, Jean-Pierre Darroussin, Yolande Moreau, Swann Arlaud, Nina Meurisse, Olivier Perrier, Clotilde Hesme, Alain Beigel, Finnegan Oldfield, Lucette Beudin e Jérôme Lanne. Al cinema dal 1° Giugno 2017