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Venezia 2016, venerdì 9 settembre: Lav Diaz da Leone d’Oro, delude Piccioni – oggi chiusura con Kusturica e I Magnifici 7

Festival di Venezia 2016: quasi 4 ore di film in b/n ed è subito toto Leone d’Oro per Lav Diaz. Male Questi Giorni, ultimo italiano in gara.

pubblicato 9 Settembre 2016 aggiornato 30 Luglio 2020 06:20

A cura di Federico Boni

Terzultimo giorno di Festival con bel tempo, caldo e poca, davvero poca gente. Il Lido veneziano si è svuotato nella giornata di martedì, più o meno, con gli ultimi rimasti veri e propri ‘highlanders’ che hanno dato via al giovedì con Questi Giorni, terzo ed ultimo titolo italiano in Concorso. Un road movie di formazione con protagoniste quattro ragazze, quattro amiche tanto differenti eppure così legate. Apparentemente. Legate dalla quotidianeità, dai sentimenti taciuti e non corrisposti, pronti ad esplodere nel corso di un breve ma lluminante viaggio verso Belgrado, che di fatto andrà ad incrinare il loro già instabile equilibrio. Piccioni apre varie linee narrative per poi dimenticarsene, lasciando così personaggi e sottotrame al loro destino. C’è un unico rapporto che davvero funziona all’interno del film, ovvero il legame ben calibrato tra la splendida Maria Roveran e un’inedita ma meravigliosa Margherita Buy, qui alla sesta collaborazione con il regista. Giovani donne tra loro poco affini e soprattutto costantemente incazzate che certamente non rappresentano una generazione qui dipinta con il macete, tra cliché LGBT, drammi personali, gravidanze precoci, paradisi perduti e un insoluto io di fondo che alla lunga diventa sfiancante per chi osserva e dannatamente limitante per i suoi stessi protagonisti.

Mattinata proseguita con Gantz: O, anime di Keiichi Sato e Yasushi Kawamura presentato fuori Concorso. Un lungometraggio animato in CG tratto dal celebre manga di Hiroya Oku incentrato su morte, giustizia e violenza. Protagonista Masaru Kato, morto in un incidente e risvegliatosi in una stanza che non ha mai visto. Qui incontra i membri del cosiddetto “Team Tokyo”, il cui leader, Kurono, è appena morto. Assieme a loro Masaru viene trasferito a Osaka City, una città circondata da un oceano di fuoco, e all’interno di un gioco di sopravvivenza, di vita o di morte. Pomeriggio inoltrato con Planetarium di Rebecca Zlotowski, interpretato da Natalie Portman, Lily-Rose Depp ed Emmanuel Salinger. Serata a senso unico, infine, a ‘causa’ di Lav Diaz e del suo titolo fiume da 226 minuti: The Woman Who Left, da molti dato come papabile Leone d’Oro. Una storia semplice ma allo stesso tempo complessa, un’opera sull’esistenza umana che prova a spingere il cinema verso il suo ruolo più profondo e grandioso: trovare risposte alle filosofiche domande che ogni spettatore si pone.

Ultima giornata in Concorso prima dei premi di domani sera quella di oggi, con Emir Kustirica chiamato ad aprirla con On the Milky Road, film interpretato dalla nostra Monica Bellucci. Subito dopo A Jamais di Benoit Jacquot, seguito alle ore 17 dall’atipico horror adolescenziale dal taglio LGBT Boys in the Trees e dal remake de I Magnifici 7, titolo di chiusura del Festival.

[accordion content=”ovazione per Konchalovsky, ma è Jackie da Leone d’oro” title=”Venezia 2016, giovedì 8 settembre”]
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A cura di Antonio Maria Abate

Siamo oramai in dirittura d’arrivo. Due giorni ed anche questa edizione numero 73 sarà giunta al suo epilogo. Dopo la tempesta dell’altro ieri, la giornata che ci siamo appena lasciati alle spalle ha solo fatto registrare un po’ di vento e temperature più miti: una manna per chi come noi fa entra ed esci dalle sale.

I film rimasti sono sempre meno, ma proprio oggi abbiamo visto quello che ad avviso di chi scrive è il candidato più forte al Leone d’Oro. Mi riferisco a Jackie di Pablo Larrain, ritratto di Jacqueline Kennedy interpretato da una Natalie Portman che con questo film potrebbe arrivare lontano, magari fino alla notte che lì ad Hollywood aspettano tutti, chi lo sa? La recensione è online da ieri pomeriggio intanto.

Sempre in mattinata ho visto The Journey, da cui francamente mi aspettavo qualcosa. Poco, ma pur sempre qualcosa. Ed invece l’approccio di Nick Hamm all’argomento mi pare superficiale, sia nelle premesse che ancor più nelle conclusioni; e poco importa che si tratti di una storia realmente accaduta. Anche in questo caso abbiamo la recensione.

Vorrei parlarvi pure di un film che ho recuperato due giorni fa ma che non ho avuto modo di menzionare poiché ieri era il turno di Federico. A Liberami di Federica Di Giacomo, è vero, manca forse un punto di vista più incisivo; il suo documentario parla del fenomeno delle possessioni in Sicilia, e di come i pochi esorcisti gestiscono i casi delicati che si presentano alle loro porte. Come diceva Pascal, vi sono abbastanza luci per credere ed altrettante ombre per non farlo, ma se c’è una cosa che mi ha colpito è l’atteggiamento di certi preti: come quei dottori che oramai ne hanno viste troppe per impressionarsi, se è vero che ciò che sostengono coloro che si affidano a questi sacerdoti, non si capisce come mai vi sia tutta questa approssimazione. Uno dei momenti più lucidi è quello in cui un giovane, tutto piercing e tatuaggi, cocainomane e con due processi a carico, rassicura la propria ragazza, allorché lei domanda che senso ha andare in Chiesa se poi si sente così male, specie se non si ha poi tutta questa Fede: «senti, io prima non credevo a niente, e forse non ci credo nemmeno ora. Non importa se ci credi o no però, certe cose ti possono succedere comunque».

La giornata si è chiusa con Paradise di Konchalovsky, film sull’olocausto che mutua dal documentario alcune scelte che alla fine si rivelano le più azzeccate. Qui al Lido è stato accolto da un applauso tendente all’ovazione; alcuni gridano addirittura al capolavoro. Noi, più sommessamente, ci limitiamo all’apprezzamento per una lavoro che non in tutto e per tutto riesce a slegarsi dall’immaginario di riferimento; e dopo Il figlio di Saul non si può più tornare indietro.

Oggi due degli ultimi tre film in Concorso. Apre Questi giorni di Giuseppe Piccioni, chiude la giornata The Women Who Left del prolifico Lav Diaz, film più lungo del Festival (ma dopo le otto ore di A Lullaby To the Sorrowful Mystery, 226 minuti fanno meno impressione). Altro titolo che aspetto con particolare curiosità è l’anime di Yasushi Kawamura, Fuori Concorso, ovvero Gantz:O. Per concludere l’altro film con Natalie Portman: Planetarium di Rebecca Zlotowski.

[accordion content=”Text” title=”Venezia 2016, mercoledì 7 settembre: applausi per Terrence Malick mentre delude la Amirpour, arrivano Končalovskij e Natalie Portman con Jackie”]

A cura di Federico Boni

Giornata di pioggia e fortissimo vento, quella vissuta ieri al Lido di Venezia. Una bufera si è infatti abbattuta sulla 73esima Mostra Internazionale del Cinema di Venezia nel primo pomeriggio, rinfrescando automanticamente l’umida aria dell’ultima settimana.

Ad aprire la mattinata, attesa è dir poco, l’iraniana Ana Lily Amirpour con The Bad Batch. Fantascientifico cannibal western dispotico che frulla i genere più disparati nel soleggiato e sterminato deserto del Texas, il film ruota attorno a Samantha, bionda mozzafiato bandita dagli Stati Uniti d’America che, marchiata con un numero di riconoscimento dietro l’orecchio e gettata nel deserto, dovrà a provare a sopravvivere tra bande di palestrati cannibali che cacciano umani per divorarli e gli eccessi psichedelici di una comunità guidata da un santone che sogna la nascita di una nuova era ingravidando ogni giovane a disposizione. Dialoghi ridotti all’osso, personaggi a malapena accennati e metafore a stelle e strisce forzatamente marcate tra ‘american dream’ e rifiuti sociali da gettare nel gabinetto del mondo. Visivamente ricercato, volutamente splatter e sfacciatamente pop, The Bad Batch esaurisce quasi immediatamente ritmo e fascino, affondando inevitabilmente in un arido deserto di noia. Stilisticamente eccellente, il film paga esageratamente le pecche di uno script che sembrerebbe quasi essersi fermato al curioso e disturbante soggetto iniziale, in costante bilico tra vita e morte, sopravvivenza e abbandono, odio e amore, prigionia e libertà. Una fiaba romantica dal taglio pulp che regala momenti di grande cinema, lisergico ed esteticamente ricercato. Ma con il contagocce, in uno sconfinato deserto di vuoto citazionista.

Archiviata la delusione Amirpour, in sala Darsena è scoccata l’ora di Kim Rossi Stuart con Tommaso, suo secondo film da regista 10 anni dopo Anche Libero va Bene. Protagonista proprio il piccolo Tommaso del 2006, all’epoca interpretato da Alessandro Morace e nel film abbandonato dalla madre, ora adulto ma neanche a dirlo scosso da un’esistenza stravolta dai complessi e dal disagio esistenziale. Un attore pieno di fisime che tra sogno e realtà vive nell’insoddisfazione perenne, tanto sentimentale quanto lavorativa, a cui la ritrovata libertà amorosa ha fatto danni incommensurabili. A causa della propria profonda e innata insicurezza Tommaso passa da una donna all’altra, innescando ciclicamente disturbati comportamenti che lo porteranno ad affogare nella più profonda solitudine. Un Rossi Stuart inspiegabilmente morettiano che spazia tra Freud e rapporti uomo-donna, visioni oniriche e complessa realtà, agognato sesso e inarrivabile amore, distacco materno e mancanza paterna, replicando tic e ossessioni di Nanni, tra sogni d’oro ad occhi aperti con donne nude che si materializzano dinanzi a lui e reiterate indecisioni che tramutano il protagonista in un uomo onestamente insostenibile.

Primo pomeriggio in cui sono passati in sala anche Dark Night di Tim Sutton, già recensito e acclamato dal nostro Gabriele, e Robinù, disarmante documentario diretto e co-sceneggiato da Michele Santoro. Un’opera che prende vita dalla famigerata “paranza dei bambini”, fenomeno criminale esploso a Napoli nel corso degli ultimi anni con protagonisti adolescenti, minorenni pronti ad ammazzarsi e a combattersi a colpi di kalashnikov all’interno di una guerra che ha lasciato per strada oltre 60 cadaveri. Un documentario dall’impianto giornalistico a fondo sviluppato che con la forza delle immagini, e delle parole, fa venire a galla realtà a livello nazionale poco conosciute.

Prima serata da gala, invece, grazie a Voyage of Time di Terrence Malick, ritorno al Lido a dir poco atteso per il leggendario regista americano. Un progetto, questo presentato in anteprima mondiale, cullato per circa due decenni, con magnifiche immagini accompagnate dalla voce di Cate Blanchett per provare a raccontare la genesi dell’Uomo, della Terra, dello Spazio, della vita. Un’opera ambiziosa che ha raccolto non pochi applausi al termine dell’anteprima stampa, con il totopremi che si è improvvisamente arricchito di un’ingombrante presenza. Quella di Malick. A breve la recensione di Antonio.

Giornata ricca anche quella di oggi grazie all’arrivo di Jackie di Pablo Larrain con Natalie Portman negli abiti dell’ex first lady d’America, a cui seguiranno The Journey di Nick Hamm e La Ragazza del Mondo di Marco Danieli, presentato nelle Giornate degli Autori. Ore 19:30 firmate Paradise, nuova fatica di Andrej Končalovskij, con Planetarium di Rebecca Zlotowski a chiudere il tutto.

[accordion content=”: il documentario su Nick Cave sorprende, finalmente arriva Terrence Malick” title=”Venezia 2016, martedì 6 settembre”]
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A cura di Antonio Maria Abate

Oggi è il gran giorno: Terrence Malick presenta al mondo il suo Voyage of Time, documentario ambiziosissimo, frutto di un lavoro durato anni. Alla luce dell’ultimo Malick, molti potrebbero pure mostrarsi tiepidi: non chi scrive. Altro film atteso della giornata è quello che apre la Sala Darsena, ovvero The Bad Batch della Ana Lily Amirpour.

La giornata di ieri ha visto due film in Concorso. Il primo è Piuma, secondo dei tre film italiani che concorrono per il Leone d’Oro. Mi tolgo un sassolino dalle scarpe e lo scrivo: non importa quanto un film sia pessimo, ma non esiste momento ad un qualunque Festival il cui livello rasenti terra come quello in cui uno spettatore si senta in dovere (o peggio, diritto) di gridare «vergogna!» alla fine di una proiezione. Detto ciò, Piuma è un film gradevole, a cui non si perdona probabilmente il voler costruire una sorta di favola contemporanea attorno ad un tema come l’aborto. Piaciona, certo, in alcuni casi smielata, ma che per risate è stata seconda solo a El ciudadano ilustre, che è stato il film più sentitamente apprezzato sino ad ora.

Di Une vie ho già scritto in sede di recensione, alla quale prontamente vi rimando. Anche su One More Time With Feeling ho avuto modo di buttare giù qualche considerazione, alle quali aggiungo che si tratta di quelle recensioni che di tanto in tanto fa proprio bene scrivere. Toccante, girato molto bene, il documentario di Andrew Dominik su Nick Cave è un fiume in piena però pacato, com’è nello stile del cantautore australiano. Un modo per capire meglio quale sia il ruolo dei poeti oggi e perché. In serata Gukoroku, thriller investigativo giapponese dai risvolti torbidi; un pelo prevedibile ma va dato atto che per la prima mezz’ora lavora bene nell’accumulo riuscendo a non farti capire un granché pur tenendoti incollato allo schermo.

[accordion content=”Text” title=”Venezia 2016, lunedì 5 settembre: El ciudadano ilustre mette d’accordo tutti, mentre il ritorno di Mel Gibson convince a metà – oggi tocca a Piuma, secondo italiano in Concorso”]

A cura di Antonio Maria Abate

Curioso come si sia messa la giornata di ieri, e per capirlo va messi sullo stesso piano il primo e l’ultimo film della giornata. Nel primo Mel Gibson si accosta alla vicenda di Desmond Doss (qui la recensione di Hacksaw Ridge), sostenendo che tutto è possibile per chi ha vera fede in Dio. Nell’ultimo, al contrario, Amir Naderi sostiene l’esatto opposto. Monte ci porta nell’Italia medioevale, con questa montagna che minaccia da generazioni l’esistenza di un’intera stirpe. Un po’ per superstizione, un po’ perché stremati dalla fame e dall’isolamento, il capo famiglia si risolve nel modo più drastico: butta giù la montagna. Letteralmente, a colpi di martello. Per mezz’ora Naderi ci sottopone esattamente a questo, cioè a due uomini che prendono a martellate la superficie di un monte. Il discorso ha però un senso e si può riassumere nel ribaltamento della lezione impartita in Hacksaw Ridge: nessuna salvezza dall’alto; l’uomo è chiamato a spendersi da sé per risollevare le proprie sorti, costante e indefettibile. Diversamente è la morte.

Di mezzo ci sono stati anzitutto El ciudadano ilustre (recensione), film argentino estremamente divertente, scritto con criterio, che è una commedia riuscita nella misura in cui ci sono cose che prima ti fanno sorridere di gusto, salvo poi costringerti a riflettere e farti cascare le braccia a terra. Gli applausi più sentiti della Mostra sino ad ora. L’altro film in Concorso, il messicano La regiòn salvaje di Amar Escalante è il flop del Festival fino a questo momento; scandalo per lo scandalo, con questo alieno voglioso che stravolge le vite di svariate persone, non senza averle debitamente gratificate. Un’ammucchiata fantascientifica che lascia il tempo che trova, tipico film che a certi critici piace amare e che, come spesso accade in casi analoghi, lasciamo volentieri ai più propensi. Ma oggi è stato anche il giorno di David Lynch: The Art Life (recensione), riguardo al quale l’unica cosa che va detta è che dura troppo poco. Si tratta del racconto di come è nata la carriera di Lynch per bocca dello stesso interessato. Arrivati ad Eraserhead però finisce tutto, quando in realtà è proprio lì che comincia. Ricco di materiale di repertorio inedito, questo documentario ci dice pure due/tre cose su vocazione e dintorni.

Oggi secondo italiano in Concorso, subito. Si tratta di Piuma di Roan Johnson cui seguirà One More Time With Feeling di Andrew Dominic Fuori Concorso, Dawson City: Frozen Time in Orizzonti, Une Vie di Stéphane Brizé ancora in Concorso, per poi chiudere si spera in bellezza con Gukoroku di Kei Ishikawa.

[accordion content=”Text” title=”Venezia 2016, domenica 4 settembre: applausi per Papa Law e King of the Belgians – è il giorno di Mel Gibson e di Indivisibili”]

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A cura di Federico Boni

Giornata di caldo infernale alla Mostra del Cinema di Venezia, con sale perennemente in bilico tra ‘era glaciale’ e temperature esageratamente elevate. In serata, durante la proiezione di Spira Mirabilis in sala Darsena, c’è chi ha urlato tra gli applausi scroscianti ‘accendete l’aria condizionata!‘. Impossibile non dar lui ragione, tralasciando l’eccessivo e rumoroso sfogo decisamente poco festivaliero. Umida mattinata iniziata con l’esplosivo e giovane Papa di Paolo Sorrentino.

The Young Pope, serie Sky/HBO/Canal Plus, è sbarcato al Lido con i primi due applauditissimi episodi (12 in totale), che hanno da subito confermato le straordinarie potenzialità di una serie che potrebbe davvero far furore in mezzo mondo. Usa in testa. Game of Thrones che incontra House of Cards con ambientazione in Vaticano, potremmo brevemente definirlo, per un Sorrentino a briglie sciolte che si è preso rischi e libertà incredibili. Il 21 ottobre prossimo l’atteso debutto tv su Sky Atlantic.

Ore 11 con Concorso venato di western grazie a Brimstone, orrorifico titolo diretto dall’olandese Martin Koolhoven e con protagonista una ritrovata Dakota Fanning, qui negli abiti di una ‘muta’ eroina costretta a scappare dalla sadica furia di suo padre, folle predicatore interpretato da uno spaventoso, scavato e marchiato in volto Guy Pearce. Un epico duello, quello intrapreso dai due attori, in cui entrambi giocano al gatto e al topo, tra resistenza e sopravvivenza, sete di vendetta e perdono. Brutale, sporco e cattivo, il film perde lentamente presa con lo spettatore a causa di un’esagerata lunghezza e di una seconda parte che più volte barcolla sotto i colpi dell’eccesso, con Koolhoven che smarrisce il senso della misura dando vita al proprio Inferno in Terra con compiaciuto e gratuito sadismo.

Pomeriggio da applausi, tanti e tutti meritati, invece, per il miglior film visto fino ad oggi alla Mostra. King of the Belgians di Peter Brosens e Jessica Woodworth, purtroppo non in Concorso (è inspiegabile) ma in corsa per un premio nella sezione Orizzonti. Un esilarante mockumentary con protagonista un finto Re Nicola III del Belgio, in Turchia seguito come un’ombra da un documentarista incaricato di lustrarne l’immagine, quando la Vallonia, parte meridionale del Belgio, dichiara la propria indipendenza. Da questo momento in poi il Re, il regista del documentario e 3 uomini del suo staff dovranno provare a tornare in patria per salvare il Paese allo sfascio, se non fosse che una tempesta solare colpisca la Terra mandando in tilt comunicazioni e voli aerei. Nasce così uno strampalato piano di fuga, un road movie surreale e pieno di trovate che ci auguriamo possa trovare una distribuzione nel Bel Paese.

Chiusura di serata con Pets, cartoon Illumination finito a Venezia per pura promozione (da due mesi nelle sale d’America) e con il primo italiano in Concorso, ovvero Spira Mirabilis, doc concettuale di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti che ha visto andare in scena un autentico fuggi fuggi dalla sala Darsena. Chi non se n’è andato dormiva, siamo onesti, per un progetto di difficile comprensione che a breve andrà incontro alla puntuale recensione di Antonio. Il sottoscritto, causa anche influenza che necessitava di una tachipirina, è scappato infatti dopo mezz’ora.

Domenica mattina con l’atteso Hachsaw Ridge di Mel Gibson alle ore 08:30, seguito da El Ciudadano Illustre, decimo titolo in Concorso. Siamo quindi arrivati al giro di boa. Pomeriggio formato Giornate degli Autori grazie a Indivisibili di Edoardo De Angelis, seguito alle ore 19:30 da La ragiòn Salvaje, altro titolo in Concorso. Seconda serata con Il Lupo Mannaro Americano a Londra di Landis, restaurato in Sala Grande, e con Monte di Amir Naderi.

[accordion content=” applausi per Tom Ford e Ozon, arrivano il Papa di Sorrentino e Spira Mirabilis” title=”Venezia 2016 sabato 3 settembre:”]

A cura di Federico Boni

Giornata partita tra gli applausi, quella vissuta ieri, grazie ad Animali Notturni di Tom Ford, di nuovo alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia 7 anni dopo A Single Man. Tratto da Tony & Susan di Austin Wright, il film è costruito su più piani narrativi, con l’espediente del romanzo nel romanzo che cela in realtà una precisa chiave di lettura dei sue protagonisti. Un thriller ansiogeno e minimalista, quello diretto dall’ex direttore Gucci, che ha qui realizzato un fascinoso prodotto dalle venature romantiche in cui lo spettatore, così come avveniva nei confronti dei lettori del romanzo di Wright, è chiamato a cavalcare l’espediente della storia nella storia per sondare l’esistenza della protagonista. Un chiaro atto d’accusa contro il tradimento e l’abbandono, quello portato in sala da Ford, compiaciuto ed elegante dal punto di vista registico ma nella parte centrale gratuitamente grottesco, prima di portare a compimento la tremenda e feroce doppia vendetta dei vari ‘animali notturni’ del titolo.

Archiviati gli applausi per Nocturnal Animals si è presto passati al piattissimo The Bleeder di Philippe Falardeau, biopic sul pugile che ispirò Sly Stallone nella realizzazione di Rocky Balboa. Titolo onestamente insulso, per non dire inutile, quello interpretato da Liev Schreiber e Naomi Watts, con la recensione in anteprima dietro l’angolo. Se nel pomeriggio Antonio ha recuperato Sao Jorge, alle ore 19:30 fila delle grandi occasioni e sala Darsena stracolma per Frantz di Francois Ozon. Applausi sentiti al termine della proiezione per il regista francese, qui tornato ai tempi della I° Guerra Mondiale per dar vita ad un elegante melodramma tra identita’ velate, volute ambiguita’, bugie a fin di bene, amori impossibili, lutti incolmabili e possibili rinascite. Seconda serata, invece, con il provocatorio e scioccante Safari di Ulrich Seidl, agghiacciante e fedele ritratto di quanto avviene quasi quotidianamente in Africa. Qui, infatti, ordate di turisti tedeschi ed austriaci si ritrovano per cacciare antilopi, impala, zebre, gnu, elefanti, giraffe, leoni e decine di altre creture della savana per puro divertimento. Si appostano, braccano, guidano nel bus, mirano e soprattutto sparano all’ambita preda, per poi scoppiare in lacrime dalla gioia, singhiozzare per l’eccitazione, abbracciarci, riempirsi di complimenti e infine mettersi in posa per la rituale ed orrenda foto ricordo con l’animale morto ammazzato al loro fianco. Vacanze tutt’altro che economiche il cui obiettivo principale è quello di uccidere. Seidl osserva, da molto vicino, questo tour della morte che ha come protagonisti i cacciatori ‘comuni’, e non sceicchi, oligarchi o milionari russi, dando loro parola ed osservando quella che per loro è una vera e propria ossessione. La caccia. Notte horror, infine, grazie a Zombi di Romero presentato in anteprima mondiale nella sua versione restaurata, con tanto di presentazione firmata Argento-Refn.

Giornata molto ricca anche quella di oggi e soprattutto dal taglio ‘tricolore’. Pronti, via e in sala Darsena sarà possibile vedere le prime due puntate di The Young Pope, serie tv Sky-Hbo firmata Paolo Sorrentino con Jude Law negli abiti di un giovane Santo Padre. A seguire Brimstone di Koolhoven, interpretato da Dakota Fanning, Kit Harington e Guy Pearce, mentre alle 19:30 scoccherà l’ora del primo film italiano in corsa per il Leone d’Oro: Spira Mirabilis di D’Anolfi e Parenti, seguito dal cartoon Illumination Pets, campione d’incassi in mezzo mondo.

[accordion content=”Wenders lascia tiepidi, meglio Villeneuve – è il turno di Tom Ford e del suo Nocturnal Animals” title=”Venezia 2016, venerdì 2 settembre”]

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A cura di Antonio Maria Abate

Secondo giorno qui al Lido, che per molti di noi comincia sulle note di Perfect Day. È questo il brano che apre l’ultimo film di Wim Wenders, Les Beaux Jours d’Aranjuez, una sorta di spregiudicato ritorno alle origini, contraddistinto da echi da Nouvelle Vague. Vi rimando alla recensione per ulteriori chiarimenti.

Arrival di Villeneuve è di gran lunga più convincente rispetto al trailer, che a dire il vero mi aveva un po’ fuorviato. Ed invece si tratta di un trip stimolante, pregno, pur restando a pieno titolo nell’alveo mainstream. Il regista di Sicario continua perciò a confrontarsi in maniera pressoché impeccabile coi generi, il che è ancora più incoraggiante se si pensa che proprio in questo periodo sta girando uno dei film più attesi e al tempo stesso temuti dei prossimi anni, ovvero il sequel di Blade Runner.

Nel pomeriggio ho avuto modo di testare la virtual reality grazie a Jesus VR – The Story of Christ, primo lungometraggio totalmente girato mediante questa tecnologia. Opera acerba, per forza di cose, ma che ci dice due/tre cose su ciò che potrebbe essere questo “nuovo” filone; più affine al teatro che al cinema, dato che la messa in scena non si può limitare a ciò che sta di fronte alla macchina da presa, il che ovviamente implica un lavoro ben diverso. Non solo le luci ma soprattutto la recitazione, dato che tutti i personaggi sono potenzialmente in primo piano. C’è da dirsi curiosi a riguardo, e a ragion veduta: la VR applicata al cinema promette un’esperienza unica in un’accezione ben più ampia di quanto non sia adesso. Qui lo spettatore è anche operatore e montatore, e nessuna visione potenzialmente è identica ad un’altra – come nel teatro.

In serata abbiamo chiuso con El Cristo Ciego, film cileno che il buzz veneziano dava come una delle sorprese di questo Festival. Opera particolare, agitata da una strana forza, che non tratta di Fede bensì di fedeli, in particolare gli abitanti del Cile settentrionale, un luogo primordiale e che perciò facilmente riesce ad identificarsi con la storia del Cristo. Tutt’altro che immediata però, chi scrive sta ancora cercando di metabolizzarla.

Oggi giornata fittissima, che speriamo di portare a casa senza troppi danni. In mattinata Nocturnal Animals e The Bleeder. Nel pomeriggio proverò ad assistere a Sao Jorge, unico film portoghese in selezione ufficiale; poi l’atteso Frantz di Ozon, Safari dell’immancabile Seidl e di notte ci si concede addirittura Zombi di Romero, presentato da Dario Argento e Nicolas Winding Refn.

[accordion content=”AMA” title=”Venezia 2016, giovedì 1 settembre: apertura d’incanto con La La Land – è il giorno di Wim Wenders e Denis Villeneuve”]

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A cura di Federico Boni

Apertura migliore, per questa 73esima edizione della Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, non si poteva davvero trovare. Il giovane e lanciatissimo Damien Chazelle, nel 2014 acclamato grazie a Whiplash, ha fatto il pieno di applausi al termine di un’affollata proiezione stampa che ha quasi per magia riportato in vita il musical americano anni ’50. La La Land, titolo sceneggiato dallo stesso Chazelle, ha incantato il Lido, reinventando in chiave moderna i canoni di un genere che da decenni si credeva perduto. Suddiviso in stagioni, La La Land guarda al classico senza pudore portando in scena la più vista delle storie d’amore, in origine complicata ma con il passare dei minuti sempre più accecante. Ricco di sequenze visivamente sublimi, perché in grado di deliziare occhi, orecchie e cuori, e ben diverso dal precedente Whiplash (l’ossessivo montaggio del 2014 lascia qui spazio a danzanti pianisequenza), La La Land poggia interamente sulle spalle di una 27enne che due anni dopo la nomination all’Oscar per Birdman potrà finalmente far sua la statuetta come migliore attrice. Emma Stone, eterea e leggiadra nel rendere credibile le disilluse ambizioni di una romantica sognatrice. La sua Mia, così fragile e talentuosa, testarda ed elegante, riempie lo schermo con un sorriso, una lacrima, un passo di danza, una strofa intonata. Ryan Gosling, bravissimo tanto nel ballo quanto nel canto, non può far altro che accontentarsi della poca luce lasciata dalla sua gigantesca ombra, talmente ingombrante da limitarne la presenza scenica.

Finito di danzare insieme ai due protagonisti di La La Land, la Mostra si è concessa il primo italiano di grido in cartellone grazie a L’Estate Addosso di Gabriele Muccino, presentato fuori concorso nella sezione Cinema nel Giardino. Un coming of age, un romanzo di formazione dal budget limitato (4 milioni di euro) e dagli attori sconosciuti, con l’amico Jovanotti alle musiche, una città ‘dei sogni’ come San Francisco sullo sfondo e una serie di scelte esistenziali da dover prendere. Peccato che Muccino, 17 anni fa già visto al Lido con Come te nessuno mai, non sia riuscito ad evitare retorica ed eccessi, finendo così per parodizzare se stesso, per perdersi in esagerazioni e poco credibili evoluzioni tra svolte on the road e innamoramenti lampo, caratterizzazioni borderline (la bella Matilde Lutz passa dal mussoliniano al gay friendly in 12 ore) e quelle immancabili sfuriate che da sempre caratterizzano il suo cinema. Urlato, esagerato e mai come in questo caso tanto artificioso.

Mentre il sottoscritto vedeva Muccino nella glaciale sala Casinò del Festival, Antonio si è goduto The Net di Kim Ki-duk, di fatto primo film ad inaugurare la nuova attesa (e a quanto pare tutt’altro che stabile) sala Giardino, sorta dove un tempo c’era il famigerato ‘buco’. Per cena, invece, il programma di ieri ci ha concesso La Luce sugli Oceani, nuovo atteso film di Derek Cianfrance, regista dell’applaudito Blue Valentine. Uno strappalacrime dramma storico ambientato al termine della Prima Guerra Mondiale su un’isola australiana apparentemente dimenticata da Dio. Perché in mezzo al nulla, nel cuore dell’Oceano. Qui c’è un faro e il suo taciturno guardiano, Tom, eroe di guerra auto-candidatosi come ‘custode’ dell’isola per sfuggire dal doloroso e recente passato e provare ad espiare i propri peccati da soldato. Al suo fianco la bella Isabel, conosciuta quasi per caso poco prima di imbarcarsi per l’isola e presto innamoratasi di lui. A segnare la vita di entrambi lo sbarco di una bimba, arrivata direttamente dall’impetuoso oceano. Un titolo quasi interamente centrato sul concetto di perdono ed espiazione, sondando a pieni mani l’amore in tutte le sue forme, che sia materno o di coppia, per uno Cianfrance prolisso, ridondante e al tempo stesso flemmatico nel portare avanti la storia d’amore cinematografica tra la Vikander e Fassbender. Lunghi dialoghi con vista sull’oceano tra romantici tramonti, abbaglianti albe e affascinanti tempeste. Impetuose onde che si abbattano sugli scogli di quest’isola ‘maledetta’, perché in grado di portare dolore ai propri abitanti attraverso l’incubo dell’isolamento e della solitudine, senza però dare quel necessario ritmo ad un’opera che tarda ad ingranare, galleggiando a lungo tra noia e stucchevolezza.

Giornata molto ricca anche quella di oggi, con sveglia alle 9 del mattino targata Wim Wenders. Les Beaux Jours d’Aranjuez 3D aprirà la mattinata, con lo sci-fi Arrival di Denis Villeneuve ad accompagnarci verso il pranzo. Digestione firmata Vogue grazie a Franca: Chaos and Creation di Francesco Carrozzini, doc dedicato alla madre Franca Sozzani, e allo slasher femminista Prevenge, mentre alle ore 17:00 scoccherà l’ora di Orecchie, titolo di Biennale College diretto da Alessandro Aronadio. Aperitivo da Concorso grazie a El Cristo Ciego di Christopher Murray, seguito alle ore 22:00 da American Anarchist di Charlie Siskel. Non perdeteci di vista, è quasi inutile sottolinearlo, per conoscere tutto quel che ci sarà da sapere su questa 2° giornata di Festival.

[accordion content=”«Andemo a veder le vedute vive»” title=”Venezia 2016, mercoledì 31 Agosto”]

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«Andemo a veder le vedute vive» è quanto esclamò una signora allorché a Venezia arrivarono i primissimi filmati dei Lumière. Era il 1896 e, come ci tiene a precisare Thierry Fremaux, direttore artistico del Festival di Cannes nonché responsabile del Museo del Cinema di Lione intitolato agli inventori del cinématographe, «dovunque andassero gli operatori dei Lumière, quelle rappresentavano le prime riprese del luogo». Centoventi anni di Cinema. Auguri!

Così si apre la Mostra, anzi, si pre-apre. Perché quello che si è tenuto ieri è l’oramai consueto appuntamento in primis per i veneziani, che accorrono al Lido (anche se per lo più sono residenti qui al Lido) per inaugurare i successivi dieci giorni di manifestazione. C’eravamo anche noi, anche stavolta. E se l’anno scorso fu Orson Welles ad aprire le danze, quest’anno tocca ad uno dei maestri del nostro cinema, quel Luigi Comencini di cui ricorre proprio quest’anno il centenario dalla nascita (insieme a lui un altro personaggio significativo avrebbe compiuto cento anni se fosse stato ancora in vita, ossia Dino Risi).

In Sala Darsena vediamo Tutti a casa, restaurato dalla Cineteca Nazionale, e ci sembra davvero di stare a casa. Nel bene e nel male. Film politico, come ci tengono a precisare tutti, dalla figlia Francesca al direttore Barbera. Una commedia agrodolce, tipicamente italiana, che parla di Italia e di italiani; quelli alle prese non tanto con la guerra quanto con l’8 settembre, data di cui il Paese è figlia, ancora oggi. Quell’Italia stracciona ma buona, vile ma irresistibilmente genuina, impaurita perciò confusa, quella che insomma è sempre esistita solo rispetto a certi suoi tratti e nulla più. Un’Italia però che quei cineasti amavano, e che per questo viene ancora oggi fuori quasi con tenerezza, pur non tacendo fattispecie poco edificanti. Insomma, nel cinema come in tutto il resto, guardare indietro come via preferenziale per andare avanti, senza sterili nostalgie ma con la sincera voglia di comprendere.

Un augurio per un’edizione nella quale gli esponenti del nostro Paese, sulla carta, non sembrano particolarmente agguerriti (ci riferiamo al Concorso). Vedremo. Intanto chi scrive ha già nel suo radar uno dei tre, ovvero l’ambizioso Spira Mirabilis, un documentario sull’immortalità (così dicono). Un Festival di cui si è scritto abbastanza per non avere nemmeno avuto inizio. C’è da capire: dopo tre anni di critiche e malcontento per un’impronta da alcuni giudicata troppo sperimentale, da altri semplicemente non all’altezza, la Mostra quest’anno ha le carte per giocarsela alla pari con l’eterno rivale francese. Rivalità che in realtà piace vedere per lo più agli addetti ai lavori, visto e considerato che un buon Festival, specie se tra i maggiori, dovrebbe essere ed è auspicabile da chiunque ami la Settima Arte.

Va però detto che i nomi ci sono, le opere blasonate pure, senza star qui a fare l’elenco. Certo, restiamo sempre in attesa della sorpresa, di quel film sbucato dal nulla, che poi magari è anche il solo che alla lunga riesci a portarti dietro. A noi, che siamo qui da spettatori prima di ogni altra cosa, questa Mostra piace raccontarla; è il nostro obiettivo, che si tratti di questo spazio aggiornato quotidianamente oppure di una recensione. Esserci per trasmettere: impressioni, sensazioni, pensieri. Tutto ciò che vale la pena condividere con voi che ci seguite da casa o magari che siete a vostra volta qui al Lido.

E l’atmosfera, questo possiamo già scriverlo, appare davvero cambiata. Non solo per l’intensificarsi dei controlli di sicurezza, ma perché proprio è altra l’aria che si respira. Lo abbiamo percepito da subito, e ne abbiamo avuto conferma con quel buco tappato, al cui posto si erge la Sala Giardino, a dire di Barbera un luogo di ritrovo per i veneziani e tutti coloro amano il cinema in generale. Dal canto mio ci sono evidentemente dei titoli che mi attraggono a priori. Malick su tutti, ma anche il duo belga Brosens-Woodworth, che nel 2012 portò in Concorso uno dei migliori film dell’annata, La Cinquième Saison; il già citato Spira Mirabilis, il ritorno dietro la macchina da presa di Mel Gibson, l’esordio americano di Pablo Larrain, l’ultima fatica di Villeneuve prima di Blade Runner 2, l’anime Gantz:O, l’opera seconda della regista di A Girl Walks Home Alone at Night, quel Planetarium che odora di consacrazione per la Zlotowski. Ma poi attenzione come sempre alle sezioni minori e parallele: orecchie tese ed occhi puntati sulle chicche che contiamo di menzionarvi.

Mentre c’è chi non vede magari l’ora che monti qualche caso capace di rendere questi giorni tutto fuorché noiosi, ci si aspetta in realtà tanto cinema e poche chiacchiere. Anche perché a parlare finora è un programma alquanto trasversale, per forza di cose rivolto alle novità, termine che mai come quest’anno assume una portata ben più ampia del nuovo film o del nuovo regista. In ballo c’è il futuro del Cinema, argomento tabù per molti ma che Venezia a suo modo desidera incentivare, sia offrendo alcuni estratti del primo lungometraggio in virtual reality, Jesus VR – The Story of Christ, sia dando una mano a quei progetti seriali, online e offline, su cui sempre più spettatori si fiondano e volentieri.

Lasciamo perciò la parola alla sala ed al suo di linguaggio, quello che passa attraverso la luce. La Mostra d’altra parte quest’anno si aperta proprio con questa parola: Lumière, nella prima immagine apparsa in Sala Darsena. Possa questo raggio illuminare noi che osserviamo stupiti luoghi, persone e situazioni che c’incalzano da ogni parte del mondo; così come il mondo, che in un contesto del genere viene vivisezionato, passato al setaccio, lasciando emergere miserie e virtù di tutti e ciascuno.