Venezia 64: Infamous giorno 7
The Darjeeling Limited – Wes Anderson (Concorso)Questo era uno dei film che attendevo con più ansia di questo festival e le mie altissime aspettative non sono state di certo deluse, Wes Anderson è un regista che ci sa fare (e ci sa fare parecchio), e malgrado la pioggia battente, i miei abiti inzuppati e il
The Darjeeling Limited – Wes Anderson (Concorso)
Questo era uno dei film che attendevo con più ansia di questo festival e le mie altissime aspettative non sono state di certo deluse, Wes Anderson è un regista che ci sa fare (e ci sa fare parecchio), e malgrado la pioggia battente, i miei abiti inzuppati e il tendone del palabiennale che sembrava dovesse cadere da un momento all’altro c’è (nella prima parte) stato da divertirsi. I tre protagonisti, come in ogni altro film di Anderson alla perenne ricerca di un padre (chissà che gli è successo a Wes da piccolo) si ritrovano a fare un viaggio in India sul treno Darjeeling Limited ed il film procede fra una gag e l’altra, caratterizzando i personaggi nel susseguirsi di queste.
C’è però da dire che lo spazio ristretto delle cabine e delle cuccette del treno non giova allo stile di regia di Anderson, che in quegli spazi angusti non riesce a dare il meglio delle sue inquadrature che lasciano i protagonisti spaesati di fronte agli spettatori; per fortuna che si esce anche dal treno, e senza stare troppo a ritrarre una India da cartolina o da onlus si riesce (magari anche in modo brusco, come la sequenza della morte del bambino, o un po’ forzato, come la visita dalla madre/suora) a liberare questi personaggi in cerca di un padre dal loro fardello (non ci vuole molto a leggere il simbolo delle valigie del padre). Un Anderson un po’ più convenzionale, un po’ meno originale degli altri, forse un pochino più tondo e riuscito, ma inutile negare che l’ho amato meno, resta tuttavia uno dei migliori di questa mostra.
Sukiyaki Western: Django – Takashi Miike (Concorso)
Il Miike più comico/demenziale/parodico che si sia mai visto unito al più tamarro (il finale del suo Dead or Alive) unito alla furia esagitata di Izo. Questo è un film per Miikiani duri e crudi, non provate nemmeno ad avvicinarvi se pensate di vedervi un’allegra parodia dei western all’italiana perchè probabilmente rimarrete delusi.
Bianchi contro Rossi, un eroe solitario nel mezzo, una donna matura pistolera (che ha avuto come maestro d’armi niente popò di meno che il Quentin Tarantino attore più divertente, scazzone e spassoso che si sia mai visto sullo schermo), tutto è all’insenga dell’esagerazione e della ridondanza: dalla fotografia, alla recitazione, agli angoli di ripresa il tutto è caricato all’eccesso: il nostro autore di culto ci è andato giù molto pesante, e noi non potevamo che essere felici di questo.
Tutti contro tutti, tutti che si sparano, tutti che si prendono a spadate, il capo dei rossi che legge e decanta l’Enrico VI e fa paragoni con la guerra delle rose, lo sceriffo che non sapendo da che parte stare diventa schizofrenico e si tira gli schiaffi da solo, rose che sbocciano in digitale con un feto in mezzo, nevicate che in 30 secondi fanno due metri di neve sui tetti delle case e poi ancora spadate, fucili, pistolettate, gatling gun tenute a braccio, casse di oro dipinto con lo spray, Quentin Tarantino invecchiato che si muove su una sedia a rotelle e che ricorda quando era un terribile (un po’ come il suo Pai Mei) maestro, assalti e ancora pistolettate, gente che muore, colpi sparati a bruciapelo, tricks, luogoteneti delle gang che si vestono da donna per conquistare il proprio boss, giornalisti che fuggono dalla sala indignati, giapponesi che parlano in un inglese stentato e con una pronuncia da due soldi e Quentin Tarantino che parla in giapponese a pappagallo, archi, frecce, balestre e fucili, indiani d’america interpretati da giapponesi.
Domani sera torno a rivedermelo, magari ne scriverò anche un’altra recensione un pochino più a freddo, ora vogliate scusarmi, ho visto il mio personalissimo Leone D’oro.
Insieme a De Palma e Wes Anderson (aspettando Johnnie To) è la regia più stilosa e marcata che si sia vista in questa mostra.
The Sun Also Rises – Jiang Wen (Concorso)
Le vicende di vari personaggi si incontrano tutte in uno sperduto paese di contadini della Cina post rivoluzionaria, dalle vicende di una madre che impazzisce e del figlio che se ne prende cura si passa ad Anthony Wong che insegna geologia all’università, canta canzoni rivoluzionare e viene accusato di toccare il culo alle ragazze al cinema, e poi si impicca. Un altro professore suo amico viene spedito in rieducazione proprio in quel paesino di montagna, dove lo accompagnerà la moglie. Da li in poi le vicende e le storie dei vari personaggi si intrecciano, presente e passato si mescolano, forse un po’ confuso ma si riesce comunque (anche se certi passaggi rimangono oscuri) ad avvicinarsi al cuore dei personaggi per poi tornare alle origini, ai bei tempi dell’amicia sovietico-cinese, alle feste e ai balli dei vari popoli spersi per i deserti: dove il sol dell’avvenire unisce in eterna fratellanza genti e culture differenti.
Certo nostalgico e malinconico, si avverte pure un briciolo di disillusione, ma è tutto così romantico (sia per quanto riguarda gli amori e le storie dei protagonisti, sia la Storia che fa capolino in modo discreto ma dal peso imponente).
Nel finale c’è una locomotiva che corre con il sole radioso che sorge all’orizzonte.
Le graine et le mulet – Abdellatif Kechiche (Concorso)
Dicevano che era bello, mai fidarsi di nessuno. Per la prima mezz’ora mi chiedevo cosa stavo guardando, se semplicemente un brutto film oppure un film molto brutto. Lunghi dialoghi, telecamera a mano che riprende il mondo dei lavoratori magrebini immigrati in Francia e i loro problemi, avevo già visto e apprezzato Loach, non avevo certo bisogno di una cosa del genere. Poi per fortuna le cose sembravano volgersi al meglio, una sorta di sguardo docufinzionale sulla realtà domestica delle famiglie ormai alla seconda generazione, con il pranzo domenicale con tutta la famiglia riunita che parla di cibo, problemi sul lavoro, il costo dei pannolini e via discutendo, lì il film aveva un buon ritmo e qualcosa di interessante da far vedere. Poi però succede il disastro e quello che poteva rimanere un ottimo film senza trama ma dalla drammaturgia fortissima diventa un terribile film con un’intreccio da due soldi e una drammaturgia da bar sport. Non appena si inizia a costruire una storia vera si capisce già dove si vuole andare a parare (e non c’è una cosa una che poi non si avveri) e il nostro interesse diventa nullo, soprattutto se poi si inisiste su tematiche e rappresentazioni da (come direbbero gli amici di secondavisione equo e solidale, con il ristorantino etnico che fa cous cous, gli europei cattivi e insensibili, e, udite udite, almeno mezz’ora di danza del ventre! Un mare di stereotipi uno dietro l’altro proposti con un “elegantissimo” montaggio alternato che sembrava non finire mai dove ogni parvenza di credibilità e di sensatezza va a farsi benedire. Giuro che non c’è mai stato un film che mi ha fatto arrabbiare e indisporre come questo, di solito me ne vado, qui volevo vedere fino a che punto si sarebbe stati capaci di arrivare, beh, molto più in là di quanto mi aspettassi.
The Fort of Death – Eichii Kudo (Western all’italiana) ??
Non capisco proprio come mai questo film figuri nella sezione Western all’italiana, tant’è sul programma c’è scritto così, prendiamolo con le molle.
Se pensate che mai ci possa essere un punto di incontro fra Sergio Leone, i chambara e i film di ninja dovreste vedere questo film, non riuscireste a immaginare quanto bello possa essere un film dove un samurai grasso con le pistole, la katana e una gatling gun (quei mitragliatori che ruotano) difende un villaggio di contadini oppressi che non vogliono pagare le tasse al signorotto locale, sparando e uccidendo tutti i cattivi.
Aiutato da uno spadaccino, un lanciatore di coltelli e una donna ninja (sì, c’erano i titoli che presentavano le varie abilità e le sue erano “donna ninja”) il nostro rubicondo eroe riuscirà a vincere: anche se tutti i contadini, tutti i samurai e tutti i suoi amici muoiono (si salvano solo i bambini).
Ci si fanno anche delle grasse risate sull’eroe che oltre al fatto di essere proprio simpatico entra in scena volendo amputare il pene di un suo paziente con lo scolo, fugge da tutte le donne che lo vogliono corrompere e venera e accarezza la sua gatling gun come se fosse il suo bene più prezioso.
Ride Lonesome – Budd Boetticher (Fuori Concorso)
Dopo la non proprio felice esperienza di ieri torno a vedermi un’altro film di questo importantissimo regista western e inizio a dubitare che la non proprio idilliaca visione di ieri fosse più dovuta alla mia stanchezza che al film in sè. Qui, in un restauro digitale fatto allo stato dell’arte, ho potuto con piacere ricredermi. Una fuga che è un’attesa, chi cerca il villain per vendetta, chi cerca una taglia per l’amnistia, nessuna frontiera da conquistare, nessun ideale da difendere o postazione da mantenere, solo i conti da sbrigare con il passato e la morte che pesa un po’ sulla testa di ognuno.
Il deserto, le rocce, le case diroccate, non sono nè da attraversare nè da vivere, comunque sia sei sempre in mezzo alla desolazione e ti ritroverai prima o poi di fronte all’albero degli impiccati.
Lou Reed’s BERLIN – Julian Schnabel (Orizzonti)
Come dice la didascalia prima del film è la registrazione del live di Berlin di Lou Reed, un live che non aveva mai fatto.
Certo, la mano di un regista vero e di gusto la si nota e non poco: non è certamente il classico live registrato con lo stampino e in più di un’occasione si riesce ad essere anche toccanti: ma rimane anche il fatto che è comque un live e poco di più: ottimo come visione di mezzanotte per farsi coccolare dalla musica e direi imperidibile per i fan di Lou Reed.
Si, oggi ho visto 7 film, mentre uscivo da una sala per entrare in un’altra ho anche avuto il tempo di trovare Takashi Miike per strada, stringergli la mano, fargli i complimenti e augurargli buona fortuna per il suo film (che ancora non avevo visto).