Home Venezia: “trattativa” per risollevare le sorti del cinema politico o impegnato, che soffre non poco, ma non riesce a convincere

Venezia: “trattativa” per risollevare le sorti del cinema politico o impegnato, che soffre non poco, ma non riesce a convincere

Si parla tanto di cattiva politica e buona politica, regnano confusione e velleità nel cinema, il cinema italiano che non sa che pesci pigliare

pubblicato 4 Settembre 2014 aggiornato 30 Luglio 2020 22:32

Mi mancano i Francesco Rosi, gli Elio Petri e tutta una miriade di registi e sceneggiatori che da “Salvatore Giuliano” a “Todo Modo” hanno narrato la parte nera del Paese, con intensità e rigore, schierandosi, cercando di mettere d’accordo idee e fatti di cronaca. Hanno lasciato film di denuncia che trasmettevano voglia di verità, la trasmettono ancora. Mi mancano i Giancarlo Sbragia, gli Ivo Garrani e tutta una miriade soprattutto di attori e registi che mettevano in scena con intelligenza, e resa scenica, un teatro a volte elementare ma serio, appassionato, sincero.

Non mi mancano i teatro-inchiesta della tv che, prendendo spunti dalla cronaca, si accontentavano di mettere in fila fatti e personaggi della storia e della cronaca che sono scomparsi dalla memoria tanto erano timidi, evasivi, inutili. Mi manca la satira di venti anni fa che nei canali della Rai abbordava politici e chiedeva loro conto di comportamenti e posizioni con centrate, indimenticabili imitazioni, divertenti. Inventava una schiera di nuove maschere di tromboni e di piccoli pifferi che rovinavano con gigionismo, spocchia, sciocca presenzione questa nostra repubblica. E adesso?

Adesso la Mostra del cinema mette nelle retrospettive dei “classici” restaurati “Todo Modo” e apre perplessa le generose braccia , mettendoli fuori concorso, a due film come “Belluscone” di Franco Maresco e “La trattativa” di Sabina Guzzanti. Il primo è un infortunio di Maresco, e mostra, dichiara, la crisi personale che questo bravo regista sta vivendo.

Il secondo non so bene cos’è. So, forse, cosa voleva essere. Un ritorno possente al cinema politico di denuncia, quello impegnato, di cui sopra; e nello stesso tempo un ibrido tra il ricordo appannato a quel cinema e la satira della tv, oggi in crisi, con il solo Maurizio Crozza a garantire un acuto tiro al bersaglio dei politici, ultime maschere (forse) di una politica di mezze calzette e di personaggi quasi sempre impresentabili. Il ritorno che voleva essere possente, scaturisce dal titolo del film di Sabina, e cioè “La trattativa”. Voleva e vuole mettere gli occhi e le mani nel pasticcio di realtà che non sono ancora state del tutto chiarite (e lo saranno mai?). Voleva e vuole sostenere che ad un certo lungo punto della storia patria lo Stato è entrato in una “trattativa” con la mafia, sporcando istituzioni e figure istituzionali. Una grande ombra di silenzio.

La ricostruzione incrocia, cercando abilità drammatiche e drammaturgiche, le notizie, le rivelazioni, i titoli dei giornali; poi spezzoni di tv e di immagini colti al volo; scene girate con attori, molte scene girate con attori, bravi attori, ceffi della mala sicula e non solo, inserendo caricaturali figure di magistrati. E, colpo di scena scontato: il Berlusconi di Sabina.

Che cosa ne esce fuori? La impossibile, convenzionale storia di un gruppo di lavoratori dello spettacolo che da uno studio ha allestito uno spettacolo, teatranti come in “Amleto”, che qui però fanno il film mescolando le carte e i misteri della loro ricostruzione dei fatti proposta. Per fortuna, il nostro scassato cinema ancora garantisce intelligenza e tecnici assai bravi, e il serpente della “trattativa-film” si snoda come meglio può, si snoda e basta, spesso con sbadigli di noia che non è facile evitare.

Perché non è facile evitare gli “sbadigli di noia” (anche a bocca chiusa)? Perché il gusto della sinuosità del racconto e dei suoi tasselli- frammenti, non riesce a dare al film (?) una articolazione che divenga chiara ed efficace. I tasselli-frammenti si accumulano e si intrecciano in un pulviscolo che cerca invano nelle parole, ripeto nelle parole, straparlando, un quadro e una conclusione chiari, chiari non perché non si capisca la forma della narrazione ma perché non si arriva fino in fondo della denuncia, con reticenze ed evasività. La tragedia non è una tragedia, ma una commedia, superflua. Usciamo. Abbiamo sentito un riepilogo, ancora una volta abbiamo assistito ad un’opera di pupi e i pupari si grattano la testa, come per dire: ho fatto il possibile, mi fermo qui.

Qui dove? Forse per sapere, per capire, deve finire definitivamente il vecchio berlusconismo fatto di satira e di oscurità, di imitazioni; ma anche di segreti segreti, reticenze, coperture, che finiscono semplicemente in un urletto: mah! Un Mah grande come una casa.

Festival di Venezia