Violet: recensione in anteprima del film in concorso a Torino 2014
Torino Film Festival 2014: un film che richiede una pazienza infinita, ma che ripaga lo spettatore sin da subito con uno stile meraviglioso e inquadrature da urlo, e sul finale con tocchi gentilissimi. Violet di Bas Devos sarà pure cinema per pochissimi (e infatti il pubblico della rassegna lo ha fischiato): ma quei pochi lo ameranno.
La partenza è da cinema d’autore navigato alla Haneke: un gioco di camere a circuito chiuso si scopre essere in realtà un pianosequenza grazie ad uno zoom all’indietro. Poi l’inquadratura si trasforma praticamente in multi-screen: è così che vediamo per la prima volta il protagonista Jesse assieme all’amico Jonas mentre camminano in un centro commerciale.
Poi Jonas viene pugnalato a morte. L’unico testimone è proprio Jesse, la cui vita da quel momento cambia per sempre. Affrontare le domande della famiglia e degli amici con cui va in BMX, o associare parole alla violenza cui ha assistito, diventano azioni semplicemente impossibili. Il silenzio conduce Jesse a isolarsi da chi gli sta intorno e a creare una distanza fra sé e il mondo sempre più grande.
Il riferimento del regista Bas Devos è il Van Sant di Paranoid Park, ma se ne distacca subito. Il clima è sin da subito claustrofobico e opprimente, quasi mancasse l’aria. Violet è infatti girato in 4:3 e fa largo uso di primi e primissimi piani (come quello di Jesse macchiato di sangue in viso a inizio film), e soprattutto moltissimi dettagli.
L’uso espressivo dello zoom e delle focali decide spesso cosa mettere a fuoco all’interno dell’inquadratura e cosa no: così allo spettatore è spesso “negata” gran parte di un’inquadratura già stretta e non più così convenzionale. In più Devos lavora in maniera magnifica anche sul sonoro, isolando rumori, coprendo discorsi, esaltando altri suoni. La fotografia di Nicolas Karakatsanis, da urlo, fa il resto.
Devos crede nella forza delle immagini, nel sonoro, nelle inquadrature e nei vuoti. Non nella retorica o nel commento musicale, che immagino avrebbe reso emotivamente più accessibile e immediato il risultato finale. Violet è un film sulla metabolizzazione del lutto in un coming-of-age che non solo non ha paura dei silenzi, ma anzi li sfrutta tutti, e che dilata il tempo fino all’estremo.
Anche il lavoro sullo spazio è degno di nota e funzionale, visto che spesso è reso in modo straniante: capita che ci debba essere spesso la figura umana per capire dove o a che distanza siamo. Tutto è misterioso e strano in Violet, molto di quel che si vede è incompleto o persino deformato. Ci sono pure degli inserti “digitali” che ragionano sull’influenza del digitale stesso.
Sono immagini confuse che sembrano talvolta quelle di un cellulare, poi di un computer che naviga in Google Maps, e delle già citate telecamere di sorveglianza. Non è un caso poi che un bambino, con aria spocchiosa, vada a Jesse e gli mostri una foto terribile sul suo cellulare, scatenando la sua ira. Sono parti di una realtà frammentata che il protagonista potrebbe portarsi dietro per sempre.
“Sei un codardo”, dice a Jess uno dei ragazzi che fanno acrobazie in bici con lui. Il protagonista non può fare altro che non rispondere, rigirarsi verso la direzione in cui stava guardando e fissare il vuoto. Fa lo stesso persino ad un concerto, in cui peraltro si capisce il titolo del film: Jesse non si muove assieme alle decine di teste che si muovono a ritmo, ma ha gli occhi sbarrati nonostante le luci stroboscopiche e il volume della musica altissimo. Una delle tante scene, tra l’altro, che ricorda una video-installazione.
Ma bastano tutte le acrobazie dei ragazzi in BMX o l’inquadratura delle scintille del falò a far dire che Violet è solo videoarte? No, la narrazione c’è: è solo che il regista crede che il pubblico, anche con cotanto materiale all’apparenza “antinarrativo”, debba essere attivo. Ed è per questo che Violet ci chiede molta, moltissima pazienza. Però se la merita tutta, visto che nel finale azzecca almeno un paio di momenti da lacrime agli occhi. E, dopo tutto quello che ha costruito, ridà forza persino ad un semplice gesto come quello di un abbraccio.
Violet è un film imploso, che non urla e prova a restituire allo spettatore un’idea concreta di gravitas. Che non lo faccia spingendo il pedale su certi toni (notare la delicatezza con cui è trattato il rapporto tra Jesse e il padre) è solo un pregio. E non c’è nessuna voglia di buttare tutto in depressione facilotta, anzi. Devos lascia lo spettatore con la speranza che Jesse, prima o poi, riesca a cancellare quello che è successo. Forse succederà: sicuramente lentamente…
Voto di Gabriele: 8.5
Violet (Belgio / Olanda 2014, drammatico 85′) di Bas Devos; con Cesar De Sutter, Koen De Sutter, Mira Helmer.