Virtual Revolution: recensione in anteprima
Cupo neo-noir dai chiari riferimenti, Virtual Revolution riesce ad essere sul pezzo pur senza integrare nulla o quasi di inedito al dibattito. Buona tenuta visiva e godibile intrattenimento fanno il resto
Nash è un investigatore privato. L’anno è il 2047, epoca in cui oramai con un lavoro del genere è difficile tirare a campare dato che solo le multinazionali possono permettersi di ingaggiarne uno. Ma c’è di più. Nella Nuova Parigi del futuro il mondo oramai si divide in Connessi e non Connessi: in altre parole i primi anno oramai abdicato alla realtà per vivere a conti fatti in una virtuale, dove possono essere ciò che vogliono, come vogliono; i secondi, in numero decisamente inferiore ai primi, sono quei pochi che questa diffusa forma di alienazione non l’hanno abbracciata. Non del tutto almeno.
Virtual Revolution è un film almeno in parte francese, così come dalla Francia arriva il suo regista, Guy-Roger Duvert. Intriso di suggestioni à la Blade Runner, non asseconda però in toto quanto il celeberrimo film di Ridley Scott aveva profetizzato: per esempio, piuttosto che la sovrappopolazione, si registra il fenomeno opposto, dato che buona parte delle persone restano in casa attaccate alla loro postazione, con un’aspettativa di vita risibile per ovvi motivi. Anche laddove tocca tematiche a più ampio respiro, il film di Duvert non intende affatto complicare le cose, anche a costo di concedersi delle licenze vagamente letterarie, come quando viene spiegato che i costi sostenuti dai governi sono davvero poco cosa rispetto al passato: le istituzioni si sobbarcano infatti gli oneri di affitti e connessioni alla rete, laddove in precedenza doveva occuparsi anche di servizi come sanità, pensioni e via discorrendo. Non c’è paragone insomma.
Un cupo neo-noir, definizione forse un po’ vecchiotta ma nondimeno calzante, che vede questo investigatore privato invischiato in qualcosa di esponenzialmente più grande di lui. Una macchinazione per cui, anche a luci di nuovo accese in sala, non viene esplicitamente dato modo di risalire a chi ne ha tenute le fila, sebbene non sia difficile farsi un’idea. Ma la trama, alquanto tradizionale per chi bazzica l’ambiente, è per lo più un pretesto per costruire tutto ciò che vi sta attorno, anzitutto a livello visivo. Molto credibile infatti la Neo Paris del 2047, il cui skyline è grossomodo lo stesso di oggi, con l’aggiunta di alcuni grattacieli bruttissimi ed angoscianti ad ergersi imperiosamente sull’intero panorama. Sempre buio, tranne quando non si è connessi a questo immenso MMORPG planetario.
Il motore di tutto è l’improvvisa uccisione in massa di 148 giocatori, atto terroristico rivendicato da un gruppo che vuole restituire la libertà ai Connessi, a loro dire vittime delle multinazionali. Poco alla volta si arriva alla risoluzione del caso, tra alcune scene action, sottotrame funzionali a quella principale, ed una tenuta tutto sommato più che degna. Virtual Revolution mutua più di qualcosa dall’estetica videoludica, affermazione che però non va presa alla lettera. Diciamo che strutturalmente si tratta di un film costruito su livelli, con tanto di boss mediani e boss finale, quantunque il processo sia stato rivisto ed adattato in maniera accettabile. Questo perché evidentemente Duvert è, oltre che un cinefilo o amante della fantascienza, un videogiocatore, presupposto che gli ha permesso di trattenere e poi amalgamare quel tanto che basta taluni elementi.
Detto ciò, si tratta anche dell’opera più sul pezzo vista al Science+Fiction, che arriva proprio nel momento la virtual reality potrebbe cominciare a diffondersi. Certo, del processo che ha portato allo scenario didascalicamente descritto in Virtual Revolution non vi è traccia, ma uno degli aspetti più stimolanti della fantascienza è sempre stato quello di essere un genere se vogliamo il più “interattivo”, consentendo allo spettatore/lettore, qualora lo volesse, di colmare egli stesso i passaggi che mancano. Certo, non tutti si è all’altezza, ed infatti non è questo il criterio più adatto per valutare il peso di un’opera: non a caso film, romanzi o racconti di fantascienza li si recupera sempre post hoc, a profezie avveratesi. Tuttavia il film di Duvert stimola il dibattito, con un approccio tutt’altro che intellettuale, piuttosto attraverso del godibile e competente intrattenimento, figlio peraltro dell’epoca in cui ci troviamo.
[rating title=”Voto di Antonio” value=”6″ layout=”left”]
Virtual Revolution (USA/Francia, 2016) di Guy-Roger Duvert. Con Mike Dopud, Jane Badler, Jochen Hägele, Maximilien Poullein, Kaya Blocksage e Petra Silander.