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Su certe tare del biopic, il caso di Volevo nascondermi

Breve riflessione sul genere a cui appartiene l’ultimo lavoro di Giorgio Diritti, quel biopic spesso frainteso anche quando sembra funzionare

pubblicato 22 Febbraio 2020 aggiornato 29 Luglio 2020 13:22

Credo non sia un azzardo così sopra le righe quello di prendere l’ultimo film di Giorgio Diritti, Volevo nascondermi, quale esempio utile a discernere pregi e difetti, ma anche criticità del dare vita a un biopic. Questo genere così particolare, raramente indovinato, ma quando la marcia entra, beh, può trattarsi addirittura di gran cinema.

Su queste pagine l’abbiamo già recensito, con Federico che si è detto soddisfatto. Qui, come da introduzione, mi preme virare su altro, sebbene, en passant, emergerà pure un giudizio di massima sul film in sé. Volevo nascondermi è anzitutto, in riduzione ma nemmeno troppo, una sorta di character study, totalmente incentrato sul suo personaggio, quasi al punto di ripiegarvisi. Per sfangarla, a certe condizioni, l’aspetto saliente consiste per forza di cose in un elemento: poter contare su un grande interprete. E va detto che la trasformazione di Elio Germano è notevole, a tratti prodigiosa.

A tal proposito, nondimeno, riconosciuti i giusti meriti all’attore romano, un istante dopo ritengo sia d’obbligo rivolgere dei complimenti non meno sentiti a quelle maestranze che hanno lavorato sul cosiddetto look; se Germano colpisce, se questo suo impersonare un uomo così particolare, non poco si deve all’aspetto, che credo possa avere inciso anche sulla stessa performance, aiutare l’attore ad “entrare” ancora meglio, penetrare la complessità umana, nonché probabilmente quella artistica, di Ligabue.

Quanti film rientranti in questa categoria si perdono su questo fronte? Non confinerei i limiti di J. Edgar (2011) di Clint Eastwood, per dirne uno, al solo trucco e parrucco, ma è evidente che l’approssimazione nell’ambito in questione, ancora oggi non so se voluta o meno, finisca con lo scaraventarci fuori prima di ogni altro difetto. Questo per dire che in gioco non vi è l’opportuna resa di una singola componente, ma di una serie di fattispecie che debbono legarsi. Ed emerge qui quello che chi scrive avverte come un altro limite del film di Diritti.

Ritengo infatti che il soggetto abbia non poco potenziale nell’ottica di tirarci fuori un testo che faccia della poesia la molla, quella forza propulsiva che addirittura finisca col giustificarne la ragion d’essere. Fa bene Federico a sottoporre quel prezioso documento, peraltro in qualche modo infilato anche in Volevo nascondermi, che è lo spezzone del film in cui Ligabue interpreta sé stesso. Proprio dal confronto con quelle immagini si acquisisce una percezione più piena in merito alle asperità del risultato conseguito da Diritti, ciò che di fatto non gli consente di passare ad un step che eppure era alla portata; in quest’ultima fatica del regista bolognese, infatti, l’afflato poetico di cui sopra lo si sfiora a tratti, mentre in altri momenti, dove si tenta di muoversi su quelle note lì, emergono più vistosamente certe tare, specie sul finale, con quel didascalico spiccare il volo che stona.

Considerazione, quest’ultima, che in fondo contempla una critica positiva, dato che una nota in un film non stona pressoché mai di per sé ma a confronto con qualcos’altro, e fin lì certe forzature non ci sono. Anche laddove si avverte che non si sia fatto fondo del tutto alla forza sopra evocata, Volevo nascondermi pecca semmai per difetto, mai per eccesso, malgrado il suo protagonista sia un personaggio per certi versi “estremo”, per cui lo strafare è dietro l’angolo, anzi, quasi l’ovvio approdo di chi non è in grado di raccapezzarsi nel gestire certa verve. Perciò, anche qui, bravo Germano, ma immagino che sia toccato a Diritti evitare che in certe situazioni la scena deragliasse, e non è poco. D’altronde lavorare per sottrazione, se così si può dire, è parte della cifra del regista.

Sono un convinto assertore dell’improponibilità di valutare, men che meno girare film servendosi di squadra e compasso, per cui non mi fa specie alcuna posizione. Trovo nondimeno che quando una storia del genere viene divorata dal suo protagonista, o per meglio dire, da colui/colei che lo/la interpreta, c’è un problema, sia che tale soluzione sia frutto di una scelta o, in maniera meno auspicabile, l’esito di un processo nel corso del quale non è stato costruito con abbastanza perizia ciò che gli/le ruota attorno.

Ma senza un’idea forte, delle lenti da indossare che ci facciano vedere oltre l’immediato di una prova d’attore competente persino oltremodo, si finisce sempre col privilegiare l’originale, la piatta realtà che in fondo nemmeno il documentario restituisce in pieno (né può riuscirci), ma alla quale senz’altro, quando il lavoro è fatto con criterio, le sia avvicina meglio, sublimandola. Non sottovaluto la bravura nell’estrapolare da certi passaggi: uno sguardo, una parola, un gesto, l’umanità ferita e sinceramente toccante del pittore; ma resto del parere si dovesse andare oltre, visto che ci si muove nell’ambito della finzione.

Senza dunque dare per scontato che ottenere simili risultati sia facile, men che meno automatico, non riesco a fare a meno di avvertire la mancanza di una prospettiva, ossia di una lettura più ampia, forse più profonda, non saprei. E questo non è un limite da poco, perché senza di essa si fatica a vivere certe vicissitudini oltre a ciò che dicono al di là della portata della performance. C’è perciò realismo in Volevo nascondermi, quel taglio che fa leva sulla verosimiglianza, il quale, fino a un certo punto, si rivela essenziale per “accettare” questa vicenda, interessarsene; non abbastanza per uscirne stravolti come invece credo sarebbe dovuto accadere.