Yves Saint Laurent: Recensione in Anteprima
L’ascesa e la consacrazione di uno degli stilisti più influenti di sempre diventa un film. Il biopic su Yves Saint Laurent ripercorre vent’anni della vita dell’allora giovane innovatore e di quell’incontro che la cambiò per sempre
Chi era Yves Saint Laurent? Una sorta di divinità nell’ambito della moda, lo stilista franco-algerino cambiò più di una volta le regole del gioco. Come quando, primo ed unico sino a quel momento, ebbe l’intuizione di mettere i pantaloni alla donna, ma non solo: anche blazer ed altri capi tipicamente maschili. Fu una rivoluzione. Senza contare il suo amore per la Pittura, che lo accompagnò per tutta la vita, tra un Picasso ed un Matisse. Ma il suo biopic ci parla di un altro amore, che in fondo si fatica pure ad inquadrare.
Perché proprio la passione viscerale per l’Arte rappresentò quell’occasione propizia per conoscere Pierre Bergé, il suo compagno di una vita. Jalil Lespert, il regista, ci tiene particolarmente a sottolineare tale aspetto, ossia che il suo film si concentri essenzialmente su una storia d’amore. Eppure ci pare che a riguardo le impressioni più centrate arrivino da Guillaume Gallienne (a conti fatti il migliore del cast), l’attore che ha interpretato il personaggio di Bergè: è difficile inquadrare un rapporto come quello tra Yves Mathieu (come si firmava da piccolo quando giocava a fare il couturier) e Pierre. Una relazione, se così si può definire, tormentata, burrascosa, sotto ogni aspetto. Si è tentati di pensare al sesso, che però in questo sodalizio a vita appare un po’ come il terzo incomodo. Tra i due, questa è la tesi del film, peraltro corroborata da tutta una serie di dichiarazioni e riscontri reali, vi era anzitutto un profondo attaccamento. Un’affezione strana, talvolta perversa magari, sulla quale però Lespert si è guardato saggiamente bene dallo speculare più di tanto.
Qualcuno ha paventato la possibilità che il vero protagonista di un film che si intitola Yves Saint Laurent fosse Pierre Bergé, equivoco comprensibile ma pur sempre un equivoco: sarebbe come dire che Salieri è il protagonista di Amadeus. In realtà la struttura di questo biopic prevede uno schema molto simile al tipo adottato proprio da Miloš Forman per il suo film su Mozart, in quel caso raccontata attraverso i ricordi del suo più acerrimo rivale. Qui invece è una persona profondamente attaccata all’oggetto della narrazione, non a caso il film si sofferma su un ventennio specifico, ossia dal ’56 al ’76. Sono gli anni dell’ascesa e definitiva consacrazione dell’enfant prodige Saint Laurent, che da collaboratore qual era di Christian Dior, alla morte di quest’ultimo finisce col ricoprire il ruolo di direttore artistico della nota maison d’alta moda francese. Non ha ancora vent’anni. Gli stessi in cui i due dapprima si conobbero, evento destinato a stravolgere per sempre non solo le loro vite ma anche ad incidere in maniera indelebile su un settore tutto.
Il lavoro di Pierre Niney, qui chiamato ad interpretare probabilmente il ruolo più rilevante della sua carriera sino ad ora, si limita alla costruzione di una copia quanto più somigliante nei gesti e nelle uscite all’originale. E non è certo un lavoro semplice ricostruire un personaggio schivo, insicuro, nonché malato. Sì perché qualche tempo dopo il suo salto nella gerarchia di Dior, la chiamata alle armi lo mette in crisi facendo emergere una diagnosi spietata: Yves Saint Laurent era un maniaco-depressivo.
Il film riprende qui, a volte probabilmente calcando pure un po’ troppo la mano, l’inflazionata definizione del genio quale persona profondamente tormentata e che, anzi, si nutre dei suoi dolorosi tormenti. «Cosa farò se non potrò creare?», dice più o meno il protagonista ad un certo punto. Per Yves Saint Laurent, che per tutta la vita restò uno stakanovista, creare era essenziale quanto il respiro. E così come il processo creativo gli dava sollievo dai suoi mali psichici ed esistenziali, al tempo stesso era costretto ad attingere a questa sua sofferenza attraverso dinamiche che nel film vengono per lo più lasciate nell’aria.
Lespert sembra non volere infatti approntare un’indagine sulla psiche o sul profilo del suo personaggio, quanto piuttosto limitarsi a tracciarne alcune tappe, magari le più rilevanti. Tutti episodi che, così stipati, si versano fuori da quel recipiente che è il film. Se infatti la prima parte procede in maniera tutto sommato accettabile, la seconda rappresenta più un vortice di perdizione sul quale si doveva lavorare di più. Così com’è altro non rappresenta che un resoconto, per certi versi abbellito, di un periodo molto complesso e senz’altro sofferto. L’incapacità di sostenere il successo, unita alle svariate patologie, un presunto nuovo amore ed alcune conoscenze non troppo felici scaraventano Yves Saint Laurent in una spirale di perdizione su cui non riesce mai e poi mai ad esercitare alcun controllo.
Sullo sfondo c’è la figura di Pierre, amico, collega e compagno che assiste al disfacimento di quello che tutti considerano un genio, mentre giorno dopo giorno muore un po’ di più sottoponendosi in maniera indiscriminata ai più svariati piaceri che non sai mai se avverte come tali o come torture. Eppure sul film aleggia un’atmosfera meno pesante di così, solo che in quell’accumularsi di casistica ad un certo punto la storia si accartoccia, vanificando anche quel po’ che nella prima parte si era faticosamente costruito.
Dall’altro lato Lespert riesce a non cadere nella mera celebrazione, solo che quel percorso lo si vive in maniera così distaccata che a un certo punto non riesci più a seguire le fila del discorso. Un discorso che risente di questa rigidità imposta dal regista, il quale a ragione ritiene inopportuno il titolo di autore rivolto a sé stesso, e che dunque cade nel cosiddetto errore in cui tanti sono già caduti prima di lui: nulla aggiungere e nulla togliere ad una storia che fa più presa qualora raccontata anziché mostrata. Proprio questa scelta di affidarsi totalmente ed incondizionatamente al peso della storia e dei suoi personaggi finisce paradossalmente col depotenziare un film che invece necessitava di qualche intervento esterno in più.
Certo, in Francia e nel modo della moda in generale, Yves Saint Laurent è un’icona, dunque una personalità molto sensibile. Ma per questo vale grossomodo lo stesso discorso approntato qualche giorno fa in relazione al film sulla Lovelace: in certi contesti limitarsi a mostrare non basta. Da spettatori si avverte quella sorta di esigenza inappagata che preme e reclama a gran voce dell’altro: un maggior approfondimento, una chiave di lettura diversa magari più illuminante… purché ci si prenda più rischi e si tenti di andare oltre. Insomma, un altro piglio rispetto ad un’arrendevolezza così conclamata alla storia. Perché storie come queste, chi più chi meno, sono talmente potenti sulla carta che proprio per questo mal si prestano ad essere rappresentate, malgrado tutti i sacrosanti crismi del caso: per farlo servono delle ragioni valide ed una visione che trascenda le righe di un racconto. Tutto ciò che in Yves Saint Laurent, ultimo di una lunga serie, manca senz’altro.
Voto di Antonio: 4
Yves Saint Laurent (Francia, 2014) di Jalil Lespert. Con Pierre Niney, Guillaume Gallienne, Charlotte Lebon, Laura Smet, Marie de Villepin, Xavier Lafitte, Nikolai Kinski, Judi Beecher, Rani Bheemuck, Ruben Alves, Anne Alvaro, Marianne Basler, Janicke Askevold, Astrid Whettnall, Jeanne Dandoy, Michèle Garcia e Yvonne Gradelet. Nelle nostre sale da giovedì 27 marzo.
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