Zeby nie bylo sladów (Leave No Traces), recensione del film di Jan P. Matuszyński
L’uccisione di un giovane polacco negli anni ’80 diventa un caso internazionale, che Matuszyński ripropone senza fronzoli e con dignità
Grzegorz e Jurek passeggiano per le vie di Varsavia. Sono su di giri, un po’ per l’età, un po’ per l’euforia dovuta all’esame scritto passato da poco. In un eccesso di entusiasmo, Grzegorz sale addosso a Jurek, finendo entrambi per terra. Una scena innocua, due amici che fanno gli stupidi, spensierati. Due agenti di polizia li avvicinano, chiedendo loro i documenti; Grzegorz si rifiuta, sapendo peraltro che non vige più la legge marziale, dunque non è tenuto ad esibire alcunché. Non la pensano allo stesso modo i poliziotti, che sbattono entrambi i ragazzi dento una volante e li portano in centrale. Qui è il delirio: Grzegorz comincia ad essere pestato, preso a manganellate, poi calci e pugni. Uno dei poliziotti ferma tutto per un attimo: «colpitelo allo stomaco, non alle spalle, così da non lasciare tracce». Ecco spiegato il titolo, Zeby nie bylo sladów (titolo internazionale, Leave No Traces).
Qualche mese fa dai Visions du Réel venne fuori una piccola gemma che prende il titolo di 1970. Periodo diverso ma tematica e ambiente affini, ossia i crimini commessi dal Partito Comunista polacco, risvolto inevitabile del contesto totalitario di quegli anni; non solo, perché in entrambi i casi, nessuno ha pagato. Quanto appena detto è sempre lasciato alle didascalie che chiudono i rispettivi film un attimo prima dei titoli di coda. Ed è giusto così. Si tratta dell’ultimo pugno nello stomaco, oltre il danno la beffa, sebbene il senso d’ingiustizia si faccia strada a prescindere. Potrebbe ovviamente non voler dire nulla due film del genere in un lasso di tempo così ravvicinato, ma a prescindere da qualunque pattern si possa elaborare a sostegno, resta che questi due lavori vengano fuori quasi in contemporanea.
Leave No Traces segue l’anno successivo a quel giorno di maggio del 1983, quando il giovane Grzegorz venne pestato a sangue e ucciso, morto per complicazioni riscontrate negli organi interni. Una brutalità inspiegabile, espressione di una violenza che la dice lunga su quale fosse lo stato delle cose al tempo; in tal senso 1970 potrebbe persino fungere da prequel al film di Jan P. Matuszyński, aiutandoci peraltro a capire un attimo meglio quale sia l’atmosfera entro cui monta un caso del genere. Di lì a poco infatti la morte di Grzegorz Przemyk diventa un caso internazionale, con la BBC a dare fuoco alle polveri, davanti alle quali il Governo polacco si fece trovare impreparato, costretto a reagire in un lasso di tempo ristretto, quindi non senza palesi forzature. Dopo anni pesanti, il Partito in Polonia vuole dare segni di distensione, a partire dall’invito di Papa Giovanni Paolo II, visita oscurata dal caso Przemyk, che riporta il Paese in una situazione analoga al decennio precedente. Dall’alto si manovra, tutti sono spendibili, e se non si può arrivare a mettere a tacere, allora bisogna trova altri capri espiatori, col medesimo distacco e la stessa disumanità di una fase che a conti fatti non è ancora davvero rientrata a quel punto lì.
Al di là della fotografia sgranata, unica licenza estetica insieme a qualche brano celebre, sempre in piano diegetico, mai colonna sonora sovrapposta alle immagini, Matuszyński evita ogni forma di sofisticazione, sebbene non faccia sfoggio di austerità. Focalizzato sul dipanarsi degli eventi, l’intento è costantemente quello di registrare umori, intrighi e cambiamenti di una pagina tristissima nella Storia del suo Paese. Senza exploit o colpi di coda, Leave No Traces sembra un po’ un procedurale al contrario: anziché dover risolvere un caso, risalendo alla verità, questa verità la conosciamo dall’inizio, inequivocabile, dunque le indagini puntano a qualcos’altro, ossia a delineare la versione menzognera più accettabile.
In tutto questo è Jurek a diventare protagonista: in lui c’è una generazione di persone, giovani e meno giovani, che non ha voluto barattare una finta tranquillità con la cattiva coscienza per aver ucciso una seconda volta chi, dopo aver perso la vita, ha poi perso anche il diritto al che venisse ristabilita la verità. Da che parte stia il film è chiaro, ma il fulcro su cui ruota il tutto non sta certo nella critica ad uno specifico attore; certo, mica ci si scaglia contro idee, ma contro persone che hanno contribuito consapevolmente a creare così tanto dolore e sofferenza ad altre persone. Il sistema però descritto implicitamente, nei suoi meccanismi così come nelle sue idiosincrasie, ha a che vedere con il Potere di sempre, che di epoca in epoca si manifesta attraverso apparenze le più svariate.
Quando sul finire Jurek viene chiamato a testimoniare davanti a un giudice, lì emergono a pieno le intenzioni: incalzato sull’ennesimo cavillo dal procuratore scelto dal governo, un modo per depistare ancora una volta dal merito della testimonianza, Jurek ripete le stesse parole, ossia che il suo amico è stato ucciso da due poliziotti (indicandoli), e questo è tutto. Una scelta piuttosto semplice, ma la cui risolutezza, dopo due ore e mezza di trame, sotterfugi, pressioni e quant’altro, ha funzione balsamica.
Ovviamente vengono passate in rassegna svariate tra le ripercussioni di questo così delicato caso. Leave No Traces consente infatti, grazie a una scrittura pulita, lucida, di affacciarci su fattispecie più complesse. Essendo Jurek il vero protagonista da un certo punto in avanti, braccato, col fiato sul collo del Governo, che lo vorrebbe morto, ci viene dato d’assistere al logorarsi della sua famiglia. Lo scarto tra la risposta del giovane e quella dei suoi genitori, in particolare il padre, ex-militare e funzionario dell’esercito, da sempre vicino al Partito, contempla la portata di uno scontro generazionale che, in versione allargata, ha sfibrato un Paese intero, alimentato una cultura del sospetto che ha distrutto il tessuto sociale, a partire dalle piccole cose.
Quanti e quali concessioni si sia preso Matuszyński è difficile stabilirlo, anche se l’impressione sia quella di una versione tutt’al più romanzata ma fedele ai fatti. Le due dimensioni entro le quali procede la narrazione, ossia le trame di Partito a livello politico e giudiziario da un lato, ed il dramma familiare di Jurek, ci restituiscono un ritratto in alcuni frangenti angosciante, che mette alla berlina l’uomo, il quale, sottoposto a un certo tipo di sollecitazioni, è capace di dare il peggio. La cosa di per sé non stupisce; quel che invece è significativo è che Leave No Traces riesca a trasmettere tale oppressione in maniera organica, dunque non solo credibile ma anche, di conseguenza, verosimile.
Per nulla cinico, quantunque il finale non sia certo conciliante (come potrebbe? Al di là della cronaca), quest’opera seconda dispone di un’intensità tutta sua, che è innegabile. Non blandisce né costringe alcunché, forte della vicenda che racconta, in relazione alla quale si rapporta con rispetto, finanche umiltà nello sgomberare tutti quei potenziali ostacoli che avrebbero reso Leave No Traces un film come un altro sull’ennesima soperchieria da parte dell’autorità di turno. Manca quel quid che gli faccia fare lo step successivo, è vero, ma ad opere del genere s’impone anzitutto di essere oneste, dunque umane, non necessariamente grandi.
Zeby nie bylo sladów (Leave No Traces, Polonia/Francia/Repubblica Ceca, 2021) Tomasz Ziętek, Sandra Korzeniak, Jacek Braciak, Robert Więckiewicz, Sebastian Pawlak, Agnieszka Grochowska e Mateusz Górski. In Concorso.